Roma, Teatro Vascello, dal 29 Gennaio al 3 Febbraio 2013
E’ necessario ricordare.
Si esce dal teatro con questo imperativo ben piantato nel cervello, un obbligo dal quale non è possibile esimersi, un’urgenza impellente ed irrefrenabile scatenata da uno spettacolo (ma mai sostantivo si rivelò più riduttivo) emozionante, impegnativo e coinvolgente.
A nove anni dal debutto, Fabrizio Gifuni torna a proporre il suo Pasolini, pièce divisa in due parti ben distinte, la prima costituita da brani tratti di prosa di PPP, la seconda composta dagli endecasillabi di Giorgio Somalvico, rappresentando un quadro difforme e volutamente disomogeneo di raziocinio ed istinto, riflessione intellettuale e delirio animalesco, compostezza formale ed irrefrenabile espressività gestuale.
Il corto circuito con il pubblico viene innescato proprio dalla contrapposizione tra le due parti dell’opera, non a caso unite tra di loro da una solenne ed efficace cerimonia di svestizione dell’attore, che si denuda sul palco proprio per sottolineare il passaggio da una fase all’altra della sua performance.
Le due parti si integrano, componendo una visione di rara chiarezza della seconda metà del nostro Novecento, fatto di speranze disattese del secondo dopoguerra, dell’avvento minaccioso ed invadente dei media quale espressione di un preciso disegno politico, della constatazione dell’impossibilità di liberarsi definitivamente dei fascismi, in qualsiasi modo essi vengano declinati, della perdita dell’innocenza da parte del proletariato, dell’horror vacui della comunità intellettuale contemporanea.
Su tutto quanto sopra elencato aleggia ed incombe la presenza della morte, di un assassinio perpetrato e descritto in maniera antitetica rispetto alla poetica ed alla lucidità degli scritti pasoliniani. Un’inquietudine che attanaglia per gli ottanta minuti dello spettacolo, un’angoscia ed uno stordimento che ben rappresentano il disagio che ognuno di noi non può non provare ripercorrendo il cammino che portò alla scomparsa dell’intellettuale friulano.
Gifuni è di una bravura mostruosa, forse più efficace nella seconda parte quando può dar sfogo alla sua gestualità esasperata mista ad un linguaggio a volte incomprensibile alla lettera, ma chiarissimo e immediato nella sua energica violenza. Sarebbe facile cadere nel luogo comune della preveggenza di Pasolini, della lucidità e della disperazione nell’enunciazione del suo teorema purtroppo inascoltato.
Limitarsi all’apprezzamento per un teatro che definire ‘civile’ è estremamente riduttivo e forse persino fuorviante, questo ci è possibile fare, salutando con ammirazione e gratitudine questa splendida performance, unica e necessaria.
recensione di Fabrizio Forno