Teatro Vascello, Roma, fino al 22 gennaio; Teatro Puccini, Firenze, 27 gennaio
“Fotofinish” fu il primo spettacolo di Antonio Rezza e Flavia Mastrella che ho visto dal vivo. Era il 2004, e nello spettacolo Rezza si lamentava di cosa fosse costretto a fare a 39 anni (“copione”, se così si può chiamare, che poi veniva aggiornato man mano che gli anni passavano; del resto, l’esperienza del film “Samp” ci insegna che i personaggi crescono insieme agli attori, ma questa è un’altra storia…). Oggi sono io ad avere 39 anni, e mentre all’epoca fui completamente e piacevolmente spiazzato da questo teatro fuori da ogni convenzione, e proprio per questo più reale di altri, la settimana scorsa sono andato a vedere “Hybris” con l’esperienza di spettatore dei sette precedenti spettacoli della coppia. Eppure, riesco ancora a stupirmi. Non mi soffermo sui marchi di fabbrica della coppia (performance, voci, fisicità, mimica, temi), che i loro fan storici (e non) continueranno ad apprezzare anche in “Hybris”, ma sugli aspetti più innovativi.
Primo: corsi e ricorsi teatrali. Non è un caso che sia partito citando “Fotofinish”. “Hybris” è l’altra faccia dello spettacolo del 2003. Il protagonista di “Fotofinish” è una persona sola, che si finge diverse persone per farsi compagnia. Il protagonista di “Hybris” è invece circondato da diverse persone, che, spesso e volentieri, sono proiezioni, ma è solo nella società. I due spettacoli potrebbero essere diversi momenti di vita della stessa persona. Sia ben chiaro: non stiamo parlando di sequel o prequel (anche perché gli spettacoli di Rezza e Mastrella non hanno tempo, quindi non avrebbe senso farlo). “Fotofinish” e “Hybris” sono due opere completamente diverse tra loro, la rappresentazione dell’una ha poco o nulla a che fare con l’altra, e certamente gli autori non avevano questo in mente. Ma quanto è bello vederli in successione. Io l’ho fatto (con l’ausilio del tubo) e garantisco che è una bomba.
Secondo: la scenografia, o meglio l’habitat, estremamente essenziale, che si concentra sulla porta. La porta non solo ha un’importanza simbolica, perché è ciò che separa il dentro dal fuori e che viene utilizzata al contrario di come siamo abituati (si busa per uscire, non per entrare). Ma è essa stessa una performer, con i suoi rumori perfettamente funzionali allo spettacolo, anche quando la scena si svolge altrove.
Terzo: il cast. Rezza porta sul palco con sé le capacità artistico-performative di Ivan Bellavista, Manolo Muoio, Chiara Perrini, Enzo Di Norscia, Antonella Rizzo, Daniele Cavaioli e Maria Grazia Sughi. Impressionante in particolare come il personaggio Ivan Bellavista, in assoluto stato di grazia, si innesti alla perfezione nello spettacolo. E lo stesso Rezza, che ha sempre detto di essere un performer e non un attore, in questo spettacolo più di altri dà prova delle sue doti attoriali oltre che performative. Non si limita a far ridere, strozzando la risata in gola, ma trasmette anche la malinconia del personaggio. O forse sono io che la percepisco di più, avendo 39 anni.
Andrea Longobardo