Londra, Victoria Palace Theatre, maggio 2011
Ogni qualvolta mi capita di assistere ad uno spettacolo teatrale fuori dai confini italiani, mi sorprendo sempre del comportamento del pubblico in sala. Noi che ci descriviamo come un popolo caloroso, spontaneo e gioioso abbiamo – quando sediamo nelle platee – un atteggiamento pieno di sussiego. E’ come se per il solo fatto di essere andati a teatro ci sentissimo molto importanti, come se stessimo facendo una cosa un po’ elitaria…
Guardando il musical Billy Elliot dalla balconata del Victoria Palace Theatre di Londra ho constatato per l’ennesima volta che il pubblico europeo, e in particolare quello inglese, è abituato ad andare a teatro, lo conosce e lo ama. Ha con il mezzo artistico in questione grande familiarità tanto che non è inconsueto sentirlo interagire con gli attori o manifestare il proprio apprezzamento nei momenti più disparati dello spettacolo, senza alcun pudore.
Insomma si può assolutamente affermare che in Inghilterra ci sia una grande cultura per questa arte e non solo per le classi più abbienti o intellettuali. Il teatro è patrimonio culturale di tutti, e il fiorire di tanti musical che rimangono nei teatri per anni ne è la prova.
Anche “Billy Elliot the musical” ha avuto la stessa storia; andato in scena per la prima volta nel 2005 non si è più mosso dal Victoria Palace Theatre. Gli attori, i giovanissimi ballerini e i cantanti si sono avvicendati, ma lo spettacolo è là che regge con il tutto esaurito quasi ogni sera. Il suo enorme successo, l’aver avuto la bellezza di 4 Laurence Olivier Awards, tra cui l’ambito Best New Musical, ha fatto sì che negli anni successivi lo show sia stato prodotto anche a Broadway e in Australia dove continua ad essere in cartellone.
Il motivo di questo successo è evidente. E’ uno spettacolo popolare che ha al suo interno bravissimi cantanti e attori, uno su tutti Tom Lorcan nel ruolo del fratello maggiore di Billy, e un gruppo di meravigliosi ballerini adolescenti che alternano le repliche nel ruolo di Billy Elliot. Un cast di veri professionisti al servizio di una storia commovente e edificante che ha anche il pregio di avere una sua connotazione storica precisa, e di ricordare anni difficili di crisi economica e di lotte sindacali, ancora vive nella memoria degli spettatori.
La musica composta appositamente da Elton John è forse la cosa meno entusiasmante di tutto il musical anche se riesce a portarti alle lacrime con la canzone che canta la mamma di Billy impersonata dalla cantante Dawn Buckland.
La regia di Stephen Daldry invece convince pienamente e gioca molto sulle masse, rendendo il dramma più corale rispetto alla versione più intimista del film diretto da lui stesso. Interessante notare anche il coraggio del regista che ha voluto cimentarsi con la medesima storia attraverso due linguaggi diversi: l’uno cinematografico, l’altro teatrale. Il risultato è buono in entrambi anche se forse la versione per il grande schermo è leggermente superiore.
Una storia semplice e appassionante dunque con un ottimo cast, con buonissime strutture sceno-tecniche, con una sincera direzione e con un fantastico team di preparatori. Ecco la ricetta per confezionare uno spettacolo che possa portare in teatro le masse, che non è vero che per divertirsi hanno bisogno di qualità dubbia e di grandi manciate di volgarità.
Paradossalmente è molto più difficile allestire uno spettacolo popolare che uno spettacolo per pochi eletti, ma al di fuori dell’Italia si investono energie e competenze e i risultati si vedono sia per quel che riguarda i prodotti sia per quel che concerne l’affezione che la gente ha per il teatro in ogni suo genere.
Conscia di aver visto uno show né innovativo, né sublime sono uscita però felice tra la folla perché ero stata rapita per tre ore, trasportata negli scioperi dei minatori e nei sogni di un incompreso ballerino in erba. Questa straordinaria forza di comunicazione rende Billy Elliot un musical degno di confrontarsi con altri più antichi e famosi di lui. Rimane solo da sperare che prima o poi arrivi anche qui.
Recensione di Claudia Pignocchi