(Santeria/Woodworm – distribuzione Audioglobe/The Orchard, 2015)
A tre anni esatti dalla pubblicazione del loro notevolissimo disco d’esordio omonimo, I Sycamore Age tornano sulle scene con questo “Perfect Laughter”, sorprendendo ulteriormente e suscitando nell’ascoltatore sensazioni che vanno ben oltre quello di una divertente risata (seppure perfetta). Se per il debutto si spesero elogi e apprezzamenti meritati, attraverso accostamenti disparati (dai Radiohead al Canterbury Sound), in questa occasione la band aretina sembra spingersi ancora più in là, costruendo un’ opera possente e multiforme, di difficile catalogazione, e dove innumerevoli e inconsce reminiscenze musicali di non facile individuazione fanno continuamente capolino tra i solchi degli undici brani.
Ogni strumento (eccezion fatta per il pianoforte e la chitarra acustica), assume una natura quasi irreale, al servizio di una stratificata costruzione di paesaggi sonori in cui la forma-canzone non viene smantellata o fagocitata, ma, al contrario, rimane sempre ben in evidenza; non vengono infatti mai superati i cinque minuti di durata, eccezion fatta per “Noise Of Falls”, il brano che segue l’opener “7” (quest’ultima descrivibile come una divertente pillola dadaista in perfetta sintonia tra il primo Battiato di “Pollution” e i Tame Impala più allucinati): nella seconda traccia, la più lunga del lotto appunto, il pianoforte di Peter Hammill sembra essere alle prese con un pezzo di Elliott Smith, fino a quando il mellotron irrompe in tutta la sua magniloquente drammaticità, introducendo un crescendo orchestrale di archi e percussioni remixato dai Massive Attack, degno del Johnny Greenwood compositore cinematografico. È probabilmente questo il momento più alto del disco.
Ma ovviamente la curiosità di andare avanti è tantissima, e già con la successiva “Dalia” si cambia completamente registro, trovando la band alle prese con un brano prettamente rock, con voci e riff quasi Rock In Opposition, accompagnati da un chitarrismo a metà strada tra Josh Homme e Graham Coxon. In “Drizzling Sand” emerge invece per la prima volta l’unico piccolo difetto attribuibile al lavoro: quello di una ricerca continua della dissonanza (soprattutto nelle liriche), che se il più delle volte viene risolta e portata a termine con grande efficacia, altre volte invece appare irrisolta, ostentata: capiterà più avanti anche nella successiva “Frowning Days Odd Nights” e nella penultima “In the Blink Of An Eye”, sebbene i richiami a band distanti quali Portishead, Tom Waits e i belgi Venus rendano il tutto ben più che funzionale e gradevole.
Ma all’interno di un lavoro del genere scelte particolari e audaci come quelle appena citate servono anche per controbilanciare brani (apparentemente) più semplici, quali “The Womb of Nowhere” dove, attraverso un’accordatura aperta memore dei Led Zeppelin del terzo album, veniamo catapultati in passaggi vicinissimi ai Porcupine Tree di Stupid Dream, orchestrati da un Sufjan Stevens inaspettatamente mediterraneo.
E dopo “Behind The Sun” (quasi una rilettura più malata e malinconica di “Life in a Glasshouse” dei Radiohead messa ad accompagnare “The Elephant Man” di David Lynch) e “Cheap Chores” (dove svetta un egregio lavoro percussivo memore degli Einstürzende Neubauten più acccessibili), la conclusione è affidata a “Monkey Mountain”, un esplicito omaggio a Syd Barrett, con una divertente citazione-plagio di “Astronomy Domine”.
Una seconda prova, questo “Perfect Laughter”, attesa da tempo e rivelatasi ben più che una semplice conferma: ci auguriamo che travalichi i confini italici il più presto possibile (sebbene l’inglese a tratti non appaia perfetto), ma nel frattempo speriamo di poterne godere direttamente sui palchi della nostra penisola, anche perché la curiosità di vedere le soluzioni che la band adotterà per trasportare un lavoro del genere in sede live è davvero tanta.
Recensione di Federico