Roma, Auditorium Parco della Musica, Cavea, 6 luglio 2009
“Mettetevi comodi e rilassatevi, al resto ci pensiamo noi”: così annunciava un sornione Donald Fagen ad inizio concerto e così è stato, per due ore di ottima musica, di perfezione di suoni, di classe pura.
Eppure solo un anno fa, visto ed ascoltato a Lucca, il duo statunitense non era sembrato così sfavillante, complice forse una selezione di brani meno coinvolgenti ed il non perfetto stato di forma di Walter Becker.
Stavolta invece il chitarrista/compositore è apparso in gran spolvero, con la sua Stratocaster blu a lanciare splendidi assolo alternati ad un’ottima chitarra ritmica d’accompagnamento, nonché pronto ad avvicendarsi a Fagen nel presentare la Left Bank Holiday Big Band, otto musicisti davvero eccezionali per affiatamento e perizia tecnica, coadiuvati da tre coriste con pettinatura afro alla Angela Davis in perfetto stile seventies, tra le quali ci fa piacere ricordare Janice Pendarvis, già con Sting all’epoca delle sue Tartarughe Blu.
Il tempo sembra essersi fermato per questi due vecchi volponi, che nella ventina di brani in scaletta ne hanno selezionato solo uno della produzione più recente, quel Two Against Nature che nel 2000 segnò il ritorno sulla scena discografica dei Dan, a vent’anni esatti di distanza dal precedente Gaucho.
Spazio quindi ai gloriosi otto anni intercorsi tra Can’t Buy A Thrill, folgorante esordio del ’72 da cui è stata estratta un’irriconoscibile ma sempre splendida Reelin’ In The Years, fino al già citato Gaucho, passato alla storia per esser costato più di 1000 ore di registrazione e per la presenza di grandissimi ospiti, come i fratelli Porcaro, Steve Gadd ed un certo Mark Knopfler.
Come già sottolineato, i nostri eroi hanno voglia di divertire e divertirsi: Walter Becker immobile ed impassibile, ma sempre pronto a mettersi in evidenza per poi sparire al momento giusto, rappresentando l’antidivo per antonomasia, nella sua polo blu a righine da dopolavoro e la sua calvizie finalmente rivelata, dopo anni di ridicoli riporti. Donald Fagen, goffo come Pippo (a fine concerto vagava sul palco alla ricerca dell’uscita, impiegando svariati minuti prima di riuscire nell’impresa) ed impacciato nei movimenti, alterna il suo piano elettrico alla melodica, impreziosendo ogni brano con la sua caratteristica voce, che ci racconta di sorelle giamaicane, dello skyline di New York e delle palme californiane, tra quadretti di quotidianità e surrealismo, guidandoci in un emozionante volo notturno.
Qual è il segreto degli Steely Dan? Con non più di dieci album in quasi quarant’anni di attività questa coppia di alchimisti sonori è stata capace di creare uno stile unico ed inimitabile: la loro musica concilia East e West Coast, volge lo sguardo verso il blues del Sud, mescola il jazz, il funk ed il pop con una formula sempre fresca eppure sempre piacevolmente familiare, fra chitarre e fiati in contrappunto, ardite escursioni armoniche, ritmiche dall’inconfondibile esattezza metronomica, la cui a volte raggelante precisione fa da contraltare al calore delle tre voci nere ed all’immarcescibile piano Fender Rhodes di Donald Fagen.
Il concerto dell’anno, quindi? Non esattamente: confessiamo le nostre minime perplessità sulla scelta dei brani con cui i due hanno deciso di chiudere la serata.
Il concerto raggiunge il suo apice a tre quarti del proprio svolgimento, con una magica serie di brani in successione da togliere il respiro: Aja, Hey Nineteen, Green Earrings, tanto per citarne solo alcuni, per poi chiudersi con un paio di canzoni sicuramente importanti, ma che hanno improvvisamente abbassato la temperatura della calda serata romana; non potevamo certo aspettarci una Do It Again, troppo banale e scontato chiudere così, ma di certo una Deacon Blue o una Rikki Don’t Lose That Number avrebbero concluso in maniera più indimenticabile una serata per il resto impeccabile.
Recensione e foto di Fabrizio
Scaletta:
Sapete dove poter ascoltare la versione slow di Reelin’ In The Years eseguita in Italia?