Ago 082019
 

Come ormai decennale tradizione (la prima edizione di questa rubrica risale per l’appunto al 2009), la redazione di Slowcult vuole celebrare il ferragosto con una serie di proposte di ascolto che a nostro avviso sono meritevoli di un’attenzione e un approccio consentiti dalla pausa legata al ponte di metà estate. Ecco il primo dei due articoli sui nostri dischi da non perdere in questo scorcio di stagione.

Buon ascolto!

★★★★★

Andrea Carletti consiglia:

Beastie Boys – Paul’s Boutique (Capitol Records1989

 carletti beastieÈ un diffuso topos della pop music il fatto che,specialmente dopo un esordio di grande successo, il secondo album sia un passo molto difficile da compiere per qualsiasi artista. I Beastie Boys non fanno eccezione. Il botto di Licensed To Ill(con tanto di apertura per Madonna nel tour di Like A Virgin) aveva reso famosissimi questi tre ragazzetti newyorchesi, ebrei e soprattutto bianchi, avvicinando al mainstream un mondo, quello hip hop, che fino ad allora era stata una faccenda esclusivamente nera. La ricetta per il successo,supervisionata dal genio Rick Rubin, è uno sfacciato mix di beat potenti, sample presi da dischi classic rock (epocale l’attacco del disco che sovrappone il groove di “When The Levee Breaks” Led Zeppelin e il riff di “SweetLeaf” dei Black Sabbath), un impatto figlio delle origini hardcore punk della band, ma anche un’attitudine festaiola e infantile ai limiti dell’idiozia (i tre negli anni successivi si scuseranno più volte per alcuni testi decisamente sessisti) e quell’inconfondibile intreccio di voci, vero marchio di fabbrica del gruppo.

Ma dopo quell’irripetibile primo album il timore era quello di finire in un vicolo cieco fatto di musica stupida e atteggiamenti cretini. Per questo i Beastie Boys cambiano aria, spostandosi a Los Angeles e passando dalla leggendaria Def Jam Recordings di Rick Rubin e Russell Simmons alla Capitol. Decisivo è anche il cambio di producer: Paul’s Boutique è prodotto insieme ai Dust Brothers ed è il loro complessissimo lavoro sui sample a rendere il disco il capolavoro che è. L’intero album mette del tutto da parte drum machine e altri strumenti: è invece un enorme e anarchico collage di campioni presi dai dischi più disparati, pescando tra funk, soul, disco music, rock, punk, country e quant’altro (un lavoro che oggi sarebbe reso impossibile dalle attuali leggi sul sampling, molto più restrittive). Il tutto è magistralmente cucito in un suono stratificato e in perpetua evoluzione, in un coltoma divertentissimo gioco di riferimenti e strizzate d’occhio che rendono ogni ascolto accattivante e ricco di scoperte, oltre che travolgente ed eccitante anche per il più timido e riflessivo dei fruitori. Tutto questo fa da supporto al flow irresistibile di Mike D, MCA e Ad-Rock, che continuamente scambiano rime, si dividono versi, escogitano giochi di parole, fanno battute. È impossibile non lasciarsi trascinare dalle ritmiche funk di “Shake Your Rump” e “Hey Ladies”,dalle terzine di “The Sounds Of Science” o dai riff di “Looking Down The Barrel Of A Gun”. E non si può fare a meno di perdersi mille volte nei 12 minuti finali di “B-Boy Bouillabaisse”, che è un manifesto di straordinaria diversità culturale e offre tutto ciò che il titolo promette: una squisita zuppa che mischia tutto quello che si può aver voglia di mettere in un disco hip hop.

L’album è anche un punto di svolta perché mostra al gruppo stesso (e al mondo) la sua incredibile creatività e capacità di reinventarsi, aprendo la strada a una carriera di trent’anni e altri sei album in cui i Beastie Boys tengono miracolosamente insieme avanguardia e singoli da classifica, sperimentazioni quasi zappiane tra infiniti generi e successo mondiale, che termina solo con la morte prematura di Adam “MCA” Yauch nel 2012.

Paul’s Boutique esce il 25 luglio del 1989 e non è invecchiato di un minuto. E farlo girare sul piatto ancora e ancora è il modo migliore di celebrarne il trentennale.

Fabrizio Fontanelli consiglia:

Ike & Tina Turner – River Deep, Mountain High (A & M Records, 1966)

fontanelli turnerUn disco senza tempo, adatto a tutte le stagioni non solo a questa calda estate. Un disco senza tempo che ci fa amare il tempo che dobbiamo dedicare ad ascoltare la musica

 

 

 

 

 

Fabrizio 82 consiglia:

Massimo Urbani Quartet – The Blessing (Red Records, 1993)

urbani stelleTra i numerosi talenti bruciatisi in fretta (per dirla alla Young/Cobain) non può mancare una citazione jazzistica… ma di casa nostra. Stavolta non c’entrano nè Charlie Parker nè Chet Baker. Qui ci troviamo davanti ad uno dei più grandi sassofonisti italici, troppo inquieto e solitario per inserirsi all’interno di quello star system che gli sarebbe spettato di diritto, virtuoso dello strumento dalla personalità fragile che ne ha impedito la definitiva consacrazione. Massimo Urbani, romano, era un musicista dallo straordinario talento, minato purtroppo da funeste dipendenze, collaboratore fisso di artisti quali Mario Schiano e Giorgio Gaslini, prima di trasmigrare per un brevissimo periodo negli Area, senza purtroppo che di ciò rimanga traccia registrata. Ispirato dalle sonorità di Parker, Urbani conclude prematuramente la propria carriera artistica con il postumo The Blessing, summa di una genialità fuori del comune e coadiuvata in tal contesto dall’apporto di musicisti quali Roberto Gatto, Giovanni Tommaso e Danilo Rea, solo per citare alcuni dei fuoriclasse che con Urbani hanno suonato nel corso della breve e sfortunata carriera del sassofonista capitolino. La magia di The Blessing è rimasta intatta, ed a ventisei anni dalla pubblicazione (e dalla scomparsa di Massimo) ascoltare la cover di My little suede shoes del leggendario Bird rende bene l’idea di quel talento corrusco di cui era dotato Urbani, lasciando in sospeso l’eterna domanda tra ciò che è stato e ciò che sarebbe potuto diventare. Ma purtroppo l’eroina decise diversamente, e Massimo Urbani se n’è andato a soli 36 anni. Una perdita catastrofica per il jazz italiano. E non solo.

Marco Mazzeo consiglia:

Iron Butterfly – In A Gadda Da Vida (AtCo, 1968)

marcomazzeo estateVerso la fine degli anni 60, il rock si stava inoltrando  sempre di più nei meandri esistenzialisti di una generazione che cercava altre dimensioni spesso aiutandosi con gli stupefacenti; si sperimentava l’LSD,  tanto descritto dai precursori come Timothy  Leary, ma anche psilocibina, mescalina dal famoso Peyote e quanto altro di allucinogeno rendeva tale immaginario. La Fantasia al potere diveniva un concetto radicato nella ribellione giovanile fino a circa la metà degli anni 70. Perfino in Italia “ il potere è allergico all’acido lisergico” veniva scritto sui muri, Il Rock appunto diveniva psichedelico. Jimi Hendrix fondeva riff di blues e distorti virtuosismi psichedelici, mentre gruppi come i Doors, gli Steppenwolf, ma sopratutto i Pink Floid  si affacciavano sempre più prepotentemente raffinando sonorità mai esplorate fino ad allora. Nasceva un insolito gruppo che ebbe un successo planetario, sebbene destinato a breve vita, appunto schiacciato dall’avvento dei gruppi descritti e non solo: gli Iron Butterfly, farfalle d’acciaio. Morbidezze di voli psichedelici appunto, con sonorità di acciaio delle corde metalliche distorte della chitarra di Erick Brann un diciassettenne virtuoso. Questo gruppo scioltosi e riformatosi molte volte in realtà ebbe una poco più che decennale vita con alti e bassi. Ma il loro successo mondiale fu un pezzo della durata di 17 minuti e pochi secondi, 20 minuti dal vivo.  IN- A -GADDA- DA- VIDA, storpiatura della frase in the  Garden of Eden, è un brano con un riff ossessionatamente ripetuto e variato dalla voce di Doug Ingle che suonava anche l’organo, da un semplificato basso di Lee Dorman da una batteria con un per nulla eccellente assolo di Ron Bushy e da una distortissima chitarra dell’adolescente Erick Brann. Prese singolarmente, le parti strumentali non hanno nulla di eccezionale; eppure l’insieme del pezzo nella sua ripetizione rende proprio quell’entrata psichedelica è vagamente acida attinente al momento. Ma sopratutto il riff diviene universale a tal punto che gli attenti e straordinari musicisti dei jingle pubblicitari dei tempi lo estrapolano, inserendolo in un famoso brandy dell’epoca in un Carosello recitato dall’altrettanto famoso attore dei tempi Yul Brynner.  Il brano viene poi ripreso e superficialmente storpiato verso la metà degli anni 80 in un disco dance di un anonimo dei tempi il cui nome d’arte storpia gli originali (Simon Utterly) così come il brano In-A -GADDA-Da-VIDA viene sputtanato con In a casa di Vito!  La cosa sorprendente è che anche in un episodio dei Simpson in una chiesa viene suonato con l’organo  e cantato religiosamente (ma con attenta provocazione)   In a Garden Of Eden.  Buon ascolto!

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