La tradizione è ormai ultradecennale e consolidata: per celebrare il ferragosto la redazione di Slowcult vi propone (senza alcun particolare criterio) alcuni album adatti per essere ascoltati con attenzione consentita dalla pausa di metà estate.
Buon ascolto!
Fabrizio Forno consiglia:
Talking Heads – Fear of Music (Sire Records, 1979)
Il 3 agosto di 41 anni fa i Talking Heads pubblicano il loro terzo album, il secondo prodotto da Brian Eno.
L’evoluzione sonora partita dal precedente More Songs… subisce un’ulteriore accelerazione. David Byrne & soci sono sempre più padroni del percorso artistico intrapreso e Fear of Music va letto come la presa di coscienza della raggiunta maturità. Il disco possiede una freschezza, una potenza, un’energia non toccate dall’usura del tempo, semmai rese più attuali e lungimiranti che mai da un attento ascolto odierno. L’apertura con I Zimbra spiega con il suo ascolto i miei concetti più di mille parole. Funky metropolitano, ritmi tribali miscelati con i riff nervosi, quasi incontrollati di Byrne, il contributo asciutto e geniale di Robert Fripp: potrebbe bastare questo folgorante incipit a giustificare la mia scelta per questa strana estate 2020. Il resto (e che resto…) lo lascio scoprire o riscoprire a chi vorrà seguire nel cielo d’agosto questa speciale stella, vero monumento alla musica del novecento.
Sì, è vero, poi arriveranno Remain In Light e Speaking In Tongues, (per tacere di My Life In The Bush Of Ghosts…) ma tutto parte da qui ed è da qui che bisogna riavvolgere il nastro.
E non date ascolto alle recenti chiacchiere (fondate o meno) riguardanti l’egocentrismo di Byrne e/o l’anaffettività dello stesso leader della band: lasciate che sia l’ascolto dell’album a portarvi da un’altra parte, quella giusta, senza mai aver Paura della Musica.
Dark Rider consiglia:
Myrkur – Folkesange (Relapse Records, 2020)
Da decenni, tutti noi siamo portati a pensare alla musica proveniente dalla Scandinavia come pura espressione del metal estremo, ed è certamente vero che le principali band emerse sulla scena “underground” si sono caratterizzate, in particolare nell’ambito del sottogenere “Black Metal”, per tematiche fortemente legate alla violenza, al satanismo, all’occultismo, a volte al razzismo, alla violenta avversione per il cristianesimo, che nei momenti più estremi si è manifestata in rogo di chiese e profanazione di tombe, in alcuni omicidi, suicidi, ed alla valorizzazione, comunque, del concetto assoluto di “Male”, in nome di una purezza “nordica”, che richiama il mito di Odino, ed il vincolo essenziale con la Natura, e delle leggende mitologiche della narrazione norrena.
L’essenza del mondo selvaggio del Black Metal ha reso questa forma di controcultura la più estrema sinora mai conosciuta nell’ambito della musica popolare. Il sangue, il fuoco, mescolati alla musica si sono rivelati gli ingredienti ideali per descrivere, quasi in una composizione alchemica, la dimensione apocalittica della postmodernità. Ma non è solamente la “malvagità” la caratteristica “fondante” di questo tipo di musica: la sua cifra interpretativa, in realtà, rivela un inedito sincretismo tra vari stili e generi, la Musica Classica, la Musica Sperimentale, la Musica Folk, la Ambient. Il tutto genera sovente alcune sonorità di notevole spessore e creatività artistica, ed, in molti casi, una raffinatezza compositiva ben poco usuale in molta musica di consumo.
A questo proposito ritengo essenziale, per comprendere il mondo del “Black Metal” scandinavo il volume scritto a quattro mani da Michael Moynihan e Didrik Soderlind, “Lords of Chaos”.
Band storiche come “Mercyful Fate”, “Mayehm”, “Darktrone”,”Emperor”, “Satyricon”, “Burzum”, si sono, nel corso degli anni, affermate in tutto il mondo, per la maestosità dei suoni, il pathos “negativo” che sapevano esprimere, la poesia cupamente sepolcrale da cui erano caratterizzati, diventando ben presto, e nonostante le loro premesse “ideologiche” fenomeno “mainstream”.
È questo l’humus culturale in cui nasce Myrkur, la musicista danese Amalie Bruun, che realizza il suo affascinante, cupo album degli esordi, “M”, nel 2015.
Lei stessa nasce come suonatrice di violino e pianoforte, collabora con una Orchestra sinfonica, e presto si appassiona alla musica classica e corale. In questo modo, a suo dire, si avvicina al Black Metal, trovandoci molte connessioni.
Musicalmente, il progetto Myrkur (oscurità, in lingua islandese) parte da sonorità oscure, fortemente evocative, a volte sovrapponibili a quelle di un raffinato gruppo “black metal” francese, Alcest, ma in questo nuovo album “Folkesange”, si direbbe che l’Autrice abbia voluto compiere un percorso iniziatico, che dalle tenebre porta alla calda luce.
Tutto ciò come se nei precedenti “Me” e “Mareridt” avesse affrontato demoni della sua psiche e se ne fosse liberata, per risalire poi in superficie.
Un’aura di serenità e di dolcezza permea, infatti, questo nuovo lavoro, che si riconosce pacatamente nella tradizione norrena, esprimendo ballate dolci e delicate, che vengono cantate un po’ in danese, un po’ in inglese. Si rammenta, a tratti, certa musica celtica di qualità, a volte sembra addirittura di riascoltare Enja quando ancora militava negli irlandesi Clannad, e non aveva ancora ceduto allo showbusiness.
La recente maternità, a detta della musicista, è stata una rinascita fisica e spirituale, e di questo le sue avvolgenti canzoni sono testimoni. Dagli incubi degli album precedenti, alla riscoperta del legame con la natura: Myrkur segue le tracce di altri musicisti nordeuropei che riscoprono il passato e le tradizioni, realizzando una avventura musicale complessa e suggestiva, che coniuga un recupero filologico di antichi suoni con la rielaborazione più attuale di essi.
Questa operazione culturale è stata già compiuta, ad esempio, da “Wardruna” ed “Heilung” che ci trasportano in un mondo magico e misterioso, e Myrkur segue questo percorso, superando la dialettica angeli/demoni dei precedenti album, e quindi allontanandosi anche da cantautrici “dark” come Chelsea Wolfe, cui inizialmente poteva essere accostata.
Qui si tratta di canti “folk” inerenti il tessuto culturale scandinavo, in epopea medioevale, che si esprimono splendidamente attraverso l’uso di strumenti acustici a corda come lira, nychelharpa, mandola, tagelharpa, creando un’armonia di suoni di incredibile suggestione.
Il notevole rigore filologico che possiamo riscontrare nell’Artista danese contribuisce alla realizzazione di una pietra miliare del folk nordico contemporaneo, che per certi versi si riallaccia ai percorsi già tracciati dagli svedesi “Garmana”.
La maggior parte dei testi è in lingua danese, possiamo notare, in particolare, l’evocativa, oscura “Tor I Helheim”, che narra della discesa del dio Thor agli inferi, e la strumentale “Svea”, dedicata a Madre Svea, figura mitologico-letteraria svedese risalente al diciassettesimo secolo, rappresentata come una valchiria. La dolcissima “Leaves of Yggdrasil” (in lingua inglese) è degna di nota, come pure la ballata scozzese “House Carpenter”.
Ma, in verità, tutti i brani dell’album “Folkesange” risplendono di magia, incanto, speranza, disarmante bellezza.
Giulio Crestini consiglia:
Fire! Orchestra – Arrival (Rune Grammofon, 2019)
Arrival è il quarto album del collettivo svedese guidato dal sassofonista Mats Gustafsson , un lavoro magnetico, intenso che conferma l’altissima qualità del progetto Fire! Orchestra.
La novità rispetto ai precedenti album è l’introduzione di un quartetto d’archi, che arricchisce il lavoro di espressività, aggiungendo dettagli sonori e stati d’animo che ben si armonizzano con il collettivo.
In Arrival è racchiuso tutto il mondo sonoro di Mats Gustafsson e compagni , in esso ci sono i toni più tipici del free jazz, le sonorità folk celtiche e i crescendo circolari, ma questa volta con un timbro crepuscolare più introspettivo. L’album ha un procedere lento, intimo tra armonia e caos, in cui la centralità dell’elemento melodico è la caratteristica che più lo distingue dai precedenti lavori.
Impressionante è la coppia vocale Mariam Wallentin / Sofia Jernberg, il canto è semplice, circolare, a tratti stridulo, di rara bellezza quando è in sincrono.
Ludovica Valori consiglia:
Einstürzende Neubauten – Alles in Allem (Potomak, 2020)
Per Blixa Bargeld e soci era pronto un tour, The Year of the Rat, che avrebbe toccato anche l’Italia per la promozione del nuovo album che corona i primi 40 anni di attività della band. Poi è arrivato il Covid ad aggiungere incertezza a un momento già critico per il mondo musicale e non. Basti pensare che sulla carta è ancora in piedi un fantomatico 14 settembre all’Auditorium Parco della Musica di Roma: ma tutto è ancora incerto e la band inganna il tempo intrattenendo un dialogo continuo con i fan dai propri social, raccontando con sapida ironia il processo creativo che ha portato alla realizzazione dell’album.
E allora cerchiamo di immergerci in queste cartoline da Berlino, come le ha chiamate Alberto Campo sul Giornale della Musica. (www.giornaledellamusica.it/dischi/le-cartoline-da-berlino-degli-einsturzende-neubauten) e andiamo a esplorare le atmosfere di una città che ha vissuto le più dolorose lacerazioni nel ‘900 per poi rinascere reinventandosi al termine del secolo breve. Lo spirito guida dei Neubauten ci conduce in luoghi storici berlinesi come il quartiere di Wedding dove vissero i coniugi Hampel, che idearono la loro personale forma di resistenza antinazista, distribuendo clandestinamente cartoline con messaggi contro la dittatura di Hitler (Qualcuno ricorderà il film del 2016 Lettere da Berlino di Vincent Perez tratto dal libro di Hans Fallada Ognuno muore solo). Vaghiamo così abbandonandoci alla musica, sospesi in questa stralunata estate 2020, e alla fine viene quasi da chiedersi se si tratti della visione sonora del futuro o dell’ultima fotografia di un passato che non tornerà.
Federico Forleo consiglia:
John Cale – Paris 1919 (1973, Reprise)
The Stooges, La Monte Young, Nico, Nick Drake, Terry Riley, Animal Collective, The Modern Lovers, Patti Smith, Brian Eno, The Replacements. Velvet Underground. Se ci recassimo in un fornito negozio di dischi faticheremmo non poco a individuare in poco tempo tutti gli artisti nominati, ritrovandoci a cambiare continuamente sezione e reparto, passando dall’avanguardia al punk, spostandoci poi al minimalismo e al folk-rock. Ma tra le note di copertina troveremmo sempre un nome, accreditato sotto le forme più disparate: pianista, produttore, bassista, creatore di bordoni; ma soprattutto violista. Più semplice allora andare a spulciare in ordine alfabetico alla lettera C e scorgere direttamente John Cale.
Gallese, trasferitosi appena ventenne nella New York anni 60 attraversata dai movimenti di contro-cultura e avanguardia musicale e non, Cale fin da subito non metterà limiti alla sua fame di contaminazione e dialogo con qualsiasi forma musicale, mostrando una ecletticità unica. Ma, come spesso accade con i più grandi sperimentatori, le vette più alte vengono raggiunte quando questi si confrontano con la forma canzone o, per usare un termine che sempre incute terrore nell’ascoltatore più esigente, con il pop. Jim O’Rourke e il suo superlativo Eureka! ne sono un esempio. Così come John Cale e il suo Paris 1919, datato 1973.
Lasciati da tempo i Velvet Underground, e fresco di collaborazioni con artisti quali Nick Drake (Bryter Layter) e il leader dell’Incredibile String Band Mike Heron, Cale firma un contratto con la Reprise Records dando alle stampe un lavoro dove a emergere fin da subito è il suo straordinario talento di arrangiatore. La title track, posizionata in apertura del lato B, nella sua apparente semplicità è il sogno di ogni orchestratore pop, senza nulla da invidiare a George Martin o a Brian Wilson. Lo stesso dicasi di The Endless Plain of Fortune, dove a un pianoforte in odore di Radiohead karmapoliciani, fa da contraltare un’orchestra che sembra uscita direttamente da Harvest di Neil Young, ma più controllata e meno invasiva di quella diretta da Jack Nitzsche che, con l’ausilio della London Symphony Orchestra, appesantiva non poco i brani.
E a dolci ballate quali Andalucia (a metà strada tra Kevin Ayers e Jackson Browne) o Antarctica Stars con un pianoforte elettrico alla Roxy Music, si alternano episodi acustici quali Hanky Panky Nohow (chissà quante volte l’avrà ascoltata Alexander Tucker) o divertenti composizioni avant-rock-glam quali Graham Greene (che sembra uscire da Taking Tiger Mountain (By Strategy) di Brian Eno) o la straordinaria open track Child’s Christmas in Wales, dove la voce dall’accento inconfondibile di Cale fa emergere fin da subito la sua eleganza che pervade tutta l’opera, dal primo all’ultimo solco. Un’eleganza e una solarità che si andrà a perdere nei dischi successivi editi per l’Island (Fear su tutti), dove ritorneranno prepotentemente le sue influenze dark e sperimentali e scure degli esordi; eccellenti si, ma forse poco adatte a degli ascolti estivi!
Andrea Carletti consiglia:
Yo La Tengo – Stuff Like That There (2015, Matador)
Nome di assoluto culto, e splendido esempio di band a conduzione familiare, gli Yo La Tengo sono da sempre la creatura della coppia Georgia Hubley e Ira Kaplan, rispettivamente batteria e chitarra e corresponsabili delle voci. Li accompagna il bassista James McNew, nella band dall’inizio degli anni ’90. Hanno da poco superato i 30 anni di una carriera nel segno dell’indipendenza totale quando pubblicano Stuff Like That There, che riprendendo un’idea già messa in pratica nel 1990 con Fakebook mette insieme qualche brano nuovo con diverse cover e con rifacimenti di alcuni brani presi dai capitoli precedenti della loro stessa discografia.
Tradizionalmente dediti ad un indie rock artigianale (quasi una versione pop dei Sonic Youth più maturi) che sfocia spesso in lunghe jam dall’indole psichedelica e free form, hanno sposato negli ultimi anni un approccio sonoro molto più morbido, enfatizzando una leggerezza lisergica senza però perdere quella spontanea sincerità che aveva fatto la gioia dei critici: il suono degli Yo La Tengo più recenti, in questo disco un quartetto allargato al chitarrista Dave Schramm (che aveva già fatto parte della band agli esordi), è morbido e cristallino, le voci sono sussurrate e l’atmosfera è estremamente accogliente e serena, quasi a voler lasciar fuori la durezza e le difficoltà del mondo là fuori. Non è difficile immaginarsi ospiti del salotto della loro casa di Hoboken, nel New Jersey, per una serata informale in cui ad un certo punto saltano fuori un paio di chitarre, un contrabbasso e una batteria minimale per un piccolo concerto spontaneo, intimo e disteso, in cui le canzoni vengono scelte all’impronta.
Ne viene fuori un disco delizioso, soffuso, rilassante ma non soporifero, in cui il contrabbasso di James McNew, l’acustica di Ira Kaplan e le delicate percussioni di Georgia Hubley fanno da sfondo al magnifico e cangiante fraseggio di Dave Schramm e ai semplici e splendidi intrecci vocali. Si va dal soul di “My Heart’s Not In It”, scritta originariamente per Darlene McCrea (che fu tra le coriste di Ray Charles a cavallo degli anni ’50 e ’60) al pop zuccheroso e minimale di “Automatic Doom” dei misconosciuti concittadini The Special Pillow, alla psichedelia sixties di “Butchie’s Tune” dei The Lovin’ Spoonful, alla dolce malinconia di “Before We Stopped To Think” dei Great Plains. Si passa anche per i buffi riarrangiamenti di “I Can Feel The Ice Melting” e “Somebody’s In Love” pescate rispettivamente dai repertori dei Parliament e di un Sun Ra prestato al doo-wop, e non si può resistere alle chitarre accarezzate di “I’m So Lonesome I Could Cry” della leggenda Hank Williams e ad un’incantevole versione del superclassico “Friday I’m In Love” dei The Cure. Le cover convivono perfettamente con i brani firmati Yo La Tengo come la nuova “Rickety”, la dolcissima “All Your Secrets”, una “The Ballad Of Red Buckets” spogliata del feedback che si lascia andare in sognanti intrecci chitarristici, e una sommessa “Deeper Into Movies” (dal capolavoro I Can Hear the Heart Beating as One) che rinuncia all’assalto shoegaze e si fa eterea e rarefatta.
Se volete rifarvi dei lunghi mesi di quarantena guardando lontano verso un bel tramonto di campagna, questo album può essere l’accompagnamento ideale verso l’atmosfera perfetta.