Ecco la seconda parte dei consigli per gli ascolti, redatta come da tradizione da Slowcult con l’intento di suggerire album che l’arrivo della pausa di metà estate può rendere più apprezzabili e gustosi, senza la solita frenesia e le consuete distrazioni del resto dell’anno.
La redazione di Slowcult augura nuovamente a tutti buon Ferragosto!!!
Dark Rider consiglia:
Wolcensman – Songs from the Fyrgen (Indie Recordings, 2018)
Le vie del folk inglese sono impervie, spesso imprevedibili, ma foriere di gemme preziose, rare e sconosciute.
Ora esso rinasce, con Wolcensmen, come “neofolk arcaico” ad opera del geniale Dan Capp, già membro di una interessante band “black metal” di Manchester, Winterfylleth, che con rara efficacia esplora, con sonorità che spaziano dal black al folk metal, il retroterra culturale dell’Inghilterra pagana e primitiva.
Questo nuovo progetto (Wolcensmen, forse, vuole significare Uomini delle Nubi, in inglese arcaico) parte in sordina, già nei primi anni del decennio, ma nel 2016 trova la prima pubblicazione il primo album, “Songs from the Fyrgen” tramite la etichetta discografica Deivlforst Records; il tam tam degli ambienti “underground folk” induce la casa discografica Indie Recordings a rimixare e ristampare, nel novembre 2018, il seminale album di esordio, unendo ad esso l’ep “ Songs from the Mere”. Il risultato è una delle opere migliori degli ultimi anni, in ambito “neofolk”, che scava nelle radici dei costumi delle popolazioni britanniche antiche, e delle loro credenze religiose, utilizzando la lingua arcaica, di fatto una commistione di inglese moderno, antico e termini germanici, realizzando una operazione filologica, e proseguendo in una opera di investigazione e recupero di sonorità dei tempi antichi, che forse solo Comus, e con differenti modalità, Current 93 avevano in parte realizzato.
L’animatore del progetto, Dan Capp, di fatto una “one man band”, che si avvale di collaboratori, dichiara di aver tratto la sua ispirazione dagli elementi “folk” presenti nella produzione artistica di Opeth, dei primi Ulver, Bathory, Satyricon, Empyrium, Dead Can Dance; la sua musica è una suggestiva commistione di elementi “dark folk” ed “Ethereal”; suoni molto semplici, arpeggi di chitarra immaginifici, batteria essenziale, cori, voce solista, flauti, violoncello; il tutto genera nell’ascoltatore una sensazione di mistero, di attesa favolistica: è palese il richiamo al mondo di Tolkien, al suo immaginario di draghi ed elfi, folletti, dame, epici cavalieri. Un esplicito tributto, il musicista lo rende anche a Wardruna, ottima band di “pagan folk” norvegese, nota per avere sostenuto, negli ultimi mesi, una forte battaglia culturale sul web volta a contestare l’egemonia culturale che l’estrema destra, indebitamente, da anni esercita sui miti e le leggende nordiche.
L’Autore dice di aver appreso l’amore per il folk ascoltando una band irlandese in un pub di Dublino; in effetti, il coinvolgimento di queste sonorità fluenti, immaginifiche, crepuscolari è notevole. Laddove il folk inglese classico Pentangle, Steleeye Span (che comunque rappresentano una fonte per il musicista) era più descrittivo e “freddo”, il progetto Wolcensmen risulta di maggior impatto emotivo, per certi versi più vicino al drammatico straniamento “neofolk” di Current 93, anche se, in realtà, pervaso da maggiore serenità e spirito meditabondo.
La celebrazione pagana della natura nella sua selvaggia bellezza, nella sua misteriosa potenza pervadono l’opera: Fyrgen, infatti sta per collina boscosa, Mere citato nell’ep ristampato ed allegato sta per lago. E l’acqua è elemento fondamentale per la religione pagana; e da essa nasce la Legge per la comunità, perché è immaginata come “stabilita” da strati su un pozzo, con il flusso e la espansione del “Wyrd”, il Destino, che conferisce valore alle tavole della Legge. L’elemento religioso primordiale è ben evidenziato, l’Autore non a caso definisce il suo progetto “Heathen Folk” e l’atmosfera di mistero richiama l’esoterismo degli antichi riti pagani delle campagne inglesi. Una, per certi versi, rivendicazione e valorizzazione culturale della Albione pre-cristiana, vista come pura ed incontaminata, in quanto il Cristianesimo viene ritenuta una religione importata da altri popoli (anche se l’autore, nelle note di copertina precisa di non avere alcun pregiudizio nei confronti di essi); si realizza, con queste modalità, la celebrazione della natura, della sua magia e del suo incanto, che genera stupore e timore primordiale, ed è posta in antitesi alla moderna industrializzazione selvaggia. Una poetica di luce/oscurità intrisa di misticismo e di malinconia, di arcaiche suggestioni, dove la vita agreste è vista come reale rivelatrice della umana essenza, il principio e la fine di tutte le cose. Di grande suggestione, in particolare, alcuni brani, come The Fyre-Bough, The Mon O’ MIcht, Snowfall, Lady of the Depe (uno dei più belli, che contiene riferimenti ai laghi ed alla tradizione esoterica), e la cover del brano “folk” dei Bathory, “Man of Iron”. Ma tutti i brani contribuiscono a realizzare un’opera fortemente suggestiva e potente, di grande fascinazione e pacatezza.
Giulio Crestini consiglia:
Ry Cooder/ Ali Farka Toure – Talking Timbuktu (Hannibal Records 1994)
E’ un viaggio nel cuore dell’Africa, alle radici del blues. Una musica semplice ma molto efficace che va dritta al cuore, naturale, viva che riesce a trovare un perfetto equilibrio tra due mondi lontani. Atmosfere sospese, dilatate dove è facile abbandonarsi al ritmo ipnotico. Ali Farka Toure è un vero gigante della musica africana con uno stile chitarristico unico, immediatamente riconoscibile. Talking Timbuktu è puro blues africano, un album eccezionale che possiamo tranquillamente considerare un capolavoro
Federico Forleo consiglia:
Fabrizio Forno consiglia:
PAUL SIMON – Graceland (Warner, 1986)
Benedetta sia quella musicassetta che nel 1984 giunse alle orecchie di Paul Simon.
Conteneva musica proveniente dalle township sudafricane, che catturò il Nostro e lo spinse a scuotersi dalla depressione che da anni lo attanagliava e recarsi a Johannesburg insieme al suo produttore; viaggio da cui scaturì questo album capolavoro, opera seminale e classico disco da portarsi sulla proverbiale isola deserta.
Un’antologia di musica popolare nel senso più estensivo del termine: country, ovviamente musica folk africana, blues, zydeco, a condire un songwriting ai livelli della migliore produzione di Simon, quella in coppia con Garfunkel e dei suoi lavori da solista degli anni settanta.
Uno stato di grazia, accompagnato sia da musicisti sudafricani (menzione speciale per Ladysmith Black Mambazo), che da altri nomi prestigiosi, quali Adrian Belew, Linda Ronstadt, Youssou Ndour e addirittura gli Everly Brothers, band senza la quale non sarebbe esistita la premiata ditta Simon & Garfunkel.
Chiamatela folk, chiamatela world music, chiamatela come volete, questa è solo grande, immortale musica e ricordare solo qualche titolo sarebbe fare un torto agli altri, visto che mai come in questo caso l’intera tracklist rappresenta un unicum di livello eccelso.
Un’ultima menzione per la raccolta uscita nel 2018, Graceland: the Remixes, in cui svariati manipolatori di suoni (tra cui Thievery Corporation e Groove Armada) ripropongono a più di trent’anni di distanza i brani di Paul Simon, a testimonianza della bontà e dell’immortalità di questo album del piccolo grande uomo newyorkese.