Ancora Buon ascolto e buone vacanze a tutti!!
La redazione di Slowcult.
Daniele Borghi consiglia: Babel – Mumford & Sons (2012 Glassnote/Island/Gentlemen of the Road)
In quest’incerta estate date di nuovo il benvenuto al ritorno della musica. Quella che suona sul palco, come sul lettore, come in strada o in un locale da cento posti. Quella che non ha bisogno di mesi di registrazioni, sovraincisioni, effetti e tutte le altre migliaia di diavolerie elettroniche che sembrano diventate assolutamente necessarie anche per registrare un giro di basso.
Una voce straordinariamente espressiva, una chitarra, un contrabbasso, un banjo, in alcuni pezzi una tastiera, un enorme voglia di comunicare e un’energia strabordante: questo è “Babel” dei Mumford & Sons. Lontano dalle mistificazioni delle major e dai lustrini, dalle pose divistiche e dai dinosauri che si ostinano a salire sul palco scimmiottando i sé stessi di cinquant’anni prima.
Armonia, melodia e intensità espressiva, la musica è solo questo, tutto il resto è merda negli occhi. I Mumford lo hanno capito, o forse non hanno neppure avuto bisogno di capirlo, sono così e basta. Grazie Chiara.
Dark Rider consiglia: Trouble Will Find Me – The National (2013 4AD)
The National, che abbiamo avuto modo di apprezzare in uno splendido concerto alla Cavea dell’Auditorium pochi giorni fa, sono una splendida realtà della scena Indie Rock contemporanea, anche se ormai il mainstream li ha indubbiamente cooptati. Ciononostante, la qualità della loro musica rimane superlativa, fortemente emozionale, intimamente profonda.
“Trouble Will Find Me” è uscito un anno fa, ed è un album di grandissimo livello artistico: composizioni, ballate all’apparenza molto semplici, che sono in realtà complesse sia dal punto di vista compositivo, che da quello della costruzione armonica.
Provenienti dall’Ohio, trapiantati a New York, senza mai avere avuto la pretesa di essere poeti metropolitani, non prendendosi mai troppo sul serio, in realtà, nel corso del tempo, sono diventati i cantori dell’umana solitudine, gli ombrosi poeti dell’angoscia del vivere, dell’abbandono, della difficoltà di vivere rapporti significativi ed appaganti. Il loro universo rappresenta poeticamente una realtà dolente ed ironica, utilizzando una pluralità di stilemi musicali, dal post punk oscuro, sino al country-folk, ed alla moderna ballata melodica del pop d’autore.
L’impianto musicale di questo ultimo lavoro è prevalentemente acustico, ricco di preziosi arpeggi chitarristici, e di pianismo delicato, anche se nell’album non mancano note di synth e soffuse tastiere, e anche una drum machine. L’estro vocale di Matt Berninger, la sua sommessa, dolente lirica intimista sono fortemente coinvolgenti, perché estremamente autentici, veri, universali. Ne fa prova la capacità empatica che egli sviluppa con il pubblico durante i concerti, entrando quasi in simbiosi con esso.
Poeti crepuscolari, cantano il dolore senza diventare noiosi, gratuiti, lacrimevoli, banali: ciò vuol dire possedere la poetica delle piccole cose che segnano la vita e le danno autenticità, che favoriscono nelle persone provate la voglia di ricominciare, di lasciarsi dietro i fallimenti, magari con il rimpianto per gli errori commessi, o per gli avversi destini.
Le vette dell’album sono il pop anthem “I Should Live in Salt”, la difficoltà di comunicare e di comprendersi, dedicato al fratello, ”Fireproof”, il senso dell’inadeguatezza e l’anelito a cambiare la vita, “Sea of Love”, il rammarico per l’incapacità di amare, che ferisce le persone, I Need My Girl”, il dolore per la mancanza dell’amore perduto, i ricordi di esperienze vissute insieme, il bisogno di avere qualcuno accanto, la solitudine che devasta il cuore e l’anima; sono bellissime anche la stupenda, raggelante per miscela di voci ed archi “This is The Last Time”, ove ricorre il nome di Jennifer, un amore che finisce nella rassegnata disperazione, generando la paura dei sentimenti, il dolore che porta la febbre, “Graceless”, i cui ritmi ricordano gli immortali “Joy Division”, che descrive i mali dell’anima, che nessuna medicina può curare, forse solamente l’amore. Ma in realtà tutti i brani sono intrisi di una linea melodica suggestiva, improntata alle varie forme ed alle difficoltà delle umane relazioni.
Cantori dell’anima, The National rappresentano un’autentica poetica del male di vivere: nel loro splendido album si rammenta Leonard Cohen, ma anche Nick Cave and the Bad Seeds degli anni novanta, i Wilco, e certo post-punk anni 80: tutto ciò crea un’atmosfera carica di forte suggestione e di profondo impatto emozionale, con soffuso, intenso lirismo.
Fabrizio 82 consiglia: l’Irréparable – : Gatto Ciliegia contro il grande freddo (2004 Santeria)
Il nome del Gatto Ciliegia contro il grande freddo non dirà molto ai musicofili, ma la proposta del gruppo torinese (sulla piazza dal lontano 1999) merita indubbiamente più di un’attenzione. Il loro l’Irréparable, datato 2004, rappresenta uno dei migliori esperimenti italiani di post-rock con una cadenza chill-out che mai scade nel banale, grazie ad atmosfere dilatate vicine alle sonorizzazioni da soundtrack, quasi completamente strumentali con interessanti interventi acustici, il tutto ben amalgamato da un largo uso dell’elettronica e dei synth. Provare per credere l’iniziale Flyfalling in love, oppure la stessa title-track l’Irréparable, veri punti di forza di un lavoro bellissimo e realmente alternativo, assolutamente coerente nell’ambito di uno sperimentalismo mai fine a se stesso. Interviene anche Max Casacci dei Subsonica. Distribuito da Audioglobe/Santeria.
Adriano Pucciarelli consiglia: Green Day – American Idiot (2004 reprise records )
Nel 2004 la Reprise Records produce quello che diventerà il più venduto album del famoso gruppo pop-punk Green Day, “American Idiot”. Questo album non presenta solo delle sonorità diverse rispetto alle precedenti, ma stupisce l’ascoltatore soprattutto per la profondità dei testi delle canzoni, legate una all’altra tramite la storia di un ragazzo incompreso, il cui nome è Saint Jimmy. Egli è perso in un vuoto esistenziale, è depresso, neanche le persone più vicine a lui sembra gli diano fiducia, e questo lo porta a far uso di droghe. Per scappare da questa situazione decide di abbandonare la sua casa ed il piccolo paese in cui abita per cercare un ambiente che possa accoglierlo e in cui possa ritrovare la fiducia in se stesso; il posto migliore per esaudire il suo sogno è una grande città. L’album descrive il viaggio – sia fisico che psichico – intrapreso da Jimmy in cerca della sua vera casa, durante il quale ricade spesso nella tossicodipendenza. Ogni canzone descrive un cambiamento nella storia ed un’emozione diversa, passa dalla disperazione alla felicità, dall’ansia alla sicurezza, fino a ritornare al punto di partenza. Jimmy torna a casa, la grande città lo ha deluso, ha ritrovato lo stesso ambiente del suo paese. Torna a casa dimenticandosi di tutte le persone incontrate nel viaggio, ma ricorderà sempre la sua esperienza, perché questa gli ha aperto gli occhi, gli ha fatto capire che non è importante il luogo in cui ti trovi, le persone sono sempre uguali, ti deludono, ti tradiscono. Con questo album i Green Day fanno emergere anche il loro punto di vista su come i giovani si sentano inadeguati in una società che riserva loro un solo futuro, un futuro mediocre. I ragazzi, troppo coscienti del loro futuro da “american idiot”(americani idioti), si ribellano diventando violenti ed insicuri, verso gli altri e verso se stessi, facendo uso di droghe e cadendo in depressione. Riguardo al sound dell’album si può dire che dà inizio al cambiamento di stile del gruppo; da brani quasi interamente ispirati da precedenti artisti (come i Clash e i Ramones), i Green Day, finalmente, trovano il loro stile unendo il vecchio al nuovo e così dando vita al tanto amato pop-punk. Da questo album in poi non riusciranno più a staccarsi da questo stile che li renderà unici
Fabrizio Fontanelli consiglia: Precious Soul – Bronagh Gallagher (2012 Salty Dog Records)