Ago 192011
 

Eccoci giunti alla terza ed ultima puntata della nostra piccola guida agli ascolti agostani, riservata ad alcun artisti di chiara fama ma dei quali troppo spesso si parla poco o si è smesso troppo presto di parlare. La nostra personalissima offerta di piccole gemme che meritano un’attenzione particolare ed un ascolto più meticoloso.
Sperando di aver catturato la vostra attenzione e suscitato la vostra curiosità, rinnoviamo gli auguri di buon ascolto e buone vacanze a tutti!

La redazione di Slowcult

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Magister consiglia:

Soundgarden – Badmotorfinger (1991 A&M Records )

Prendo spunto dalla recente reunion e relativo tour in Nord America dei Soundgarden per riproporre un album eccezionale, meno conosciuto di Superunknown, ma non meno bello, con due milioni di copie vendute e due dischi di Platino alle spalle. Come tutti i migliori album Badmotorfinger ha tutto un suo proprio registro di toni che si mantiene passando da un brano all’altro. Anche quando si passa da brani diversissimi come Jesus Christ Pose ad un brano dal taglio Prog-Punk come Face Pollution. La voce bellissima e potente di Chris Cornell non prende mail il sopravvento. Fanno eccezione i brani Somewhere e Holy Water, dove si comincia ad intravedere quel tipo di impostazione che sarà propria di Superunknown. È un album ruvido è potente con riff di chitarra chiaramente più talentuosi dei coevi cugini Nirvana. Infatti, come per Pearl Jam, in quest’album si scorgono chiaramente grosse influenze dei primi anni 70. Ma a differenza dei primi, il Grunge dei Soundgarden ogni tanto schiaccia il pedale a tavoletta sul punk-rock. E’ un album caldissimo come questa estate, fa quasi sudare ascoltarlo, e come il sudore ti avvolge tutto, per lasciarti ancora a 20 anni di distanza una gradevole sensazione di freschezza. Frase del disco: “Show me the power Child…. till I’m up on my feet again”.





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Daniele Borghi consiglia:

Stormy Six – Un biglietto del tram (1975 L’orchestra)

Punto di riferimento, caposaldo, pietra miliare e di paragone per tutta la cosiddetta musica politica degli anni settanta. Una raccolta di canzoni perfette (allora li chiamavamo concept album) per melodia, armonia, arrangiamenti e testi dedicata alla resistenza e alle persone che, in quel fondamentale periodo storico, hanno dato la vita. Ineguagliabile da ogni punto di vista. Lo sentii per la prima volta dal vivo a Firenze, allora esistevano feste dell’Unità in cui si respirava aria di rivoluzione, era l’estate ’75. Da trentasei estati, a casa mia suona ancora con regolarità. Forse è nostalgica senilità, ma non ho ancora trovato nulla che possa eguagliarne la passione civile, la forza, la voglia di comunicare, la grande capacità di suonare acustico e i testi granitici. E’ il mio disco per un estate in cui una nuova resistenza sarebbe necessaria, indispensabile, forse irrimandabile. Ne suggerisco l’ascolto sperando che, chi non lo ha ancora fatto, trovi spunto, voglia e dignità per riprendersi la propria vita al di fuori dei centri commerciali





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Fabrizio consiglia:

Living Colour – Vivid (1988 Epic records)

New York, fine anni ottanta, un quartetto di afroamericani trova la classica quadratura del cerchio: ci piace l’heavy metal, ci piace il funky (uno di loro proviene dai grandi Defunkt di Jo Bowie), non disprezziamo le incursioni nel pop, che musica possiamo fare? Ecco qui i Living Colour, una grande tecnica strumentale al servizio di energia a profusione ed un progetto musicale all’epoca davvero innovativo: assieme ai Fishbone, i portavoce di un crossover unico ed inconfondibile. La band si forma a metà anni ottanta ma è nel 1988 che grazie all’interesse suscitato in un certo Mick Jagger il progetto si concretizza in un album. 11 tracce, una memorabile cover dei Talking Heads, almeno cinque o sei brani da antologia, a partire dal brano di apertura, Cult of Personality, i cui versi ‘I sell the things you need to be / I’m the smiling face on your TV’ non possono non portarci alla mente quello che di lì a poco sarebbe avvenuto in politica, un po’ ovunque, ma da noi in particolare…
La freschezza ruffiana del pop di Glamour Boys (con Jagger alla produzione ed agli irresistibili coretti) la frenesia del riff di What’s your Favorite Color? le cupe atmosfere di Memories can’t wait rendono questo album un must per chi, come me, ama le contaminazioni e il mescolamento di stili: hard rock, funky, metal, soul, punk si fondono in maniera speciale e, purtroppo, irripetibile: dopo un buon secondo album-time’s up- ed un eccellente EP-biscuits- i nostri amici, pur se ancora in apprezzabile attività soprattutto dal vivo, non sono più riusciti a ridipingere lo stesso vivido colore di questo favoloso album d’esordio.





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Andrea Carletti consiglia:

Ramones – Rocket To Russia (1977, Sire Records / Philips Records)

Con “Rocket To Russia” i Ramones pubblicano il terzo album in meno di venti mesi e raggiungono l’apice artistico della loro discografia, consolidando e rifinendo il loro suono esplosivo. È l’ultimo disco con Tommy Ramone alla batteria ed esce alla fine di un anno, il 1977, che si può definire solo come rivoluzionario, perché spazzò via in un baleno la magniloquenza e l’inutile pomposità in cui era caduto molto del rock di quegli anni. I Ramones tornano alle radici del rock’n’roll, quello di Chuck Berry, e gli restituiscono tutta la sua forza e la sua urgenza con uno stile unico: suonano nel modo più semplice, più forte e più veloce possibile, ma si rendono inconfondibili e inimitabili grazie alla precisione di Tommy e Dee Dee, al muro di suono di Johnny e alla scanzonata espressività vocale di Joey. È la rappresentazione perfetta del modo più punk di fare punk: poco più di mezz’ora in cui i brani si susseguono a colpi di one-two-three-four!, tre accordi e un testo scemo su una melodia allegra. Niente di più. Non c’è la rabbia politica dei Clash, ma l’esplicito omaggio al surf-rock di “Rockaway Beach” e il disimpegno di “I Don’t Care”; non c’è il marciume dei Sex Pistols, ma l’idiozia di “Cretin Hop” e la love-song (quasi un tabù per i punk inglesi) “Locket Love”; non ci sono la poesia di Patti Smith o i raffinati intrecci chitarristici dei Television (entrambi esordirono allo storico CBGB come i Ramones) ma la satira nichilista di “We’re A Happy Family” e gli accordi velocissimi di “Teenage Lobotomy”. C’è il rock’n’roll della straordinaria “Sheena Is A Punk Rocker”, uno dei brani più celebri della band. C’è anche modo di tirare il fiato con “Here Today, Gone Tomorrow” (una specie di pop-ballad, la prima canzone della discografia dei Ramones a discostarsi dalla formula base) o con “I Wanna Be Well” e l’eccezionale “Ramona”. Ci sono infine due cover perfette: “Do You Wanna Dance?”, un brano degli anni ’50 scritto da Bobby Freeman e reso noto dai Beach Boys, e soprattutto “Surfin’ Bird” dei Trashmen, che Joey interpreta in maniera davvero magistrale, e che sembra scritta apposta per i Ramones. “Rocket To Russia” è un disco ancora freschissimo e divertente, ottimo per l’estate, e non ha perso minimamente il suo impatto storico e sonoro, anche a distanza di oltre trent’anni. Gabba Gabba Hey!






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Lisa consiglia:

Gutter Twins – Saturnalia (2008, Sub Pop)

Essendo attualmente alquanto impegnata all’ascolto di carillon e ninnenanne, suoni dei quali vi risparmio la recensione, mi limito a segnalare questo album, suggerendolo a puerpere, partorienti e neonati. Fidatevi di me, sono ormai un’esperta…la mia è una raccomandazione che nasce dal cuore e dalla pancia…

  One Response to “Un disco per l’estate 2011, terza parte: perle (neanche troppo) nascoste”

  1. che chicca gli stormy six!!!

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