La redazione di Slowcult, a supporto delle meritate vacanze agostane, ha deciso di proporre attraverso l’insindacabile giudizio dei propri collaboratori una serie di album particolarmente significativi, da ascoltare in questo periodo di ferie; si tratta di proposte disparate, di epoche e stili diversissimi tra loro, accomunate però dal gusto e dalla voglia di scoprire che speriamo siano caratteristiche del nostro sito.
Buon ascolto … tra le rive del Gange, i geyser Islandesi, le vette andine o le più vicine località nostrane davanti alla tipica braciolata di Ferragosto, A presto!!!
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Magister consiglia:
Grinderman – Grinderman (2007 – Mute Records)
Nick Cave, indiscusso interprete di un rock alternativo che nasce alternativamente a quello a stelle e strisce nei primi anni ottanta e che sbarca nel vecchio continente nel tentativo di fecondarlo con “Semi Cattivi” e svegliarlo dal suo torpore. C’è quindi un virgulto del tutto nuovo nella melodica espressa dall’Australiano, che riesce a distinguersi nettamente dalle sonorità statunitensi ed anche da quelle della vecchia Inghilterra.
Nell’album che propongo come disco per quest’estate c’è un grande ritorno a queste sonorità un po’ acide, quasi improvvisate, un po’ garage, (come loro stessi amano dichiararsi sul loro sito myspace). Grinderman è un album solido, di gran carattere ma allo stesso tempo riesce a mantenere un filo di unione con tutta la produzione più recente di Cave e Bad Seeds, quella più poetica, struggente e melodica, a tratti melensa, ma sempre avvolgente. Suggerisco di lasciarsi andare agli 11 brani, un po’ come si fa sull’otto volante. Scoprirete che la ruvidità iniziale dei suoni, delle voci, come pure delle liriche, lascerà il posto a ballate intense e dolci. L’album è interpretato in maniera perfetta da Cave, il suo cantato è molto poco sviluppato, molto parlato e mi fa venire in mente un Nick Cave nei panni di un pastore protestante di una chiesetta dello stato di Victoria (Australia, dove è nato) che ammonisce/affascina i suoi fedeli con lunghi, a volte oscuri, sermoni. Per chiudere una curiosità. I quattro brani, esclusi poi dall’album (Chain of Flowers, Decoration Day, Vortex, Rise), sono delle ballate molto dolci che forse avrebbero contribuito a rendere il lavoro troppo morbido. Le prime tre sono veramente dei brani incredibili che spero possano uscire presto nel prossimo lavoro dei Grinderman che a quanto si vociferava all’indomani dell’uscita di Dig Lazarus Dig sarebbe stata la prossima tappa del “Re Inkiostro”.
Playlist: I Don’t Need You (To Set Me Free), Honey bee [in entrambi I pezzi Le gambe non vi si fermeranno più], Electric Alice ed in ultimo, per ricordare il quarantesimo dell’anniversario dell’uomo sulla Luna, Man On The Moon.
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Fabrizio consiglia:
Donald Fagen – The Nightfly (1982 – Warner Bros.)
Le mille luci di New York fotografate in bianco e nero, la nostalgia degli anni dell’adolescenza a cavallo tra gli anni ’50 ed i ’60, quando l’America era ancora innocente e provinciale, musica luccicante e curatissima: ecco l’esordio da solista di Donald Fagen, due anni dopo quello che a lungo verrà considerato l’ultimo album degli Steely Dan, il leggendario ‘Gaucho’, col quale possono dirsi davvero chiusi gli anni settanta. Alcune melodie ed atmosfere ricordano molto gli album scritti in coppia con Walter Becker, ma qui siamo a livelli se possibile ancora più raffinati e, per certi versi, mai più raggiunti. Solo otto brani, otto fondamentali capitoli del manuale della buona musica, oppure un estratto dal libretto delle istruzioni del buon arrangiatore e del grande compositore; cenni di Gershwin nel brano d’apertura I.G.Y., sapori caraibici (Goodbye Look), swing a Miami (Walk Between The Raindrops), suoni perfetti per la modulazione di frequenza (New Frontier). Un disco immortale, l’album notturno per antonomasia, che sembra uscito ieri, o che forse dovrà essere pubblicato domani.
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Dark Rider consiglia:
White Lies – To lose my life… (2009 – Fiction)
L’esordio dei White Lies, band proveniente dal Regno Unito composta da giovanissimi è di quelli che lasciano il segno: la musica è intensamente sepolcrale ed un sottile filo poetico e tematico la lega alla drammatica esperienza di Ian Curtis e degli immensi Joy Division, oltre che a quella dei misconosciuti ma fondamentali Sound di Adrian Borland. I brani, tutti fortemente evocativi, con synth e chitarre in bella evidenza, parlano di temi drammatici come il suicidio, a seguito della perdita di un amore e del senso della stessa vita (To lose my life), descrivono con toni elegiaci l’idea della morte in sé (Death), utilizzando un linguaggio poetico e visionario, e realizzando, conseguentemente, una sorta di estetica del dolore.
Squarci d’intenso lirismo vengono evocati nella magnifica From the Stars, con una limpidezza e compattezza del suono, che pervade l’intera opera, e che stupisce in una band ai suoi esordi. Toni intensamente romantici, uniti a cupe suggestioni post punk, ed a grande rigore espressivo, rendono quest’opera, se non originalissima, certamente in grado di ridefinire l’estetica musicale Dark e di indicare nuove strade alla dolorosa poesia esistenziale che le appartiene.
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Claudia consiglia:
Lou Reed – New York (1989 – Sire Records)
Ferie, mare, agosto, isola deserta, un disco da portare… quale? Impresa titanica la scelta, semplifichiamola. Quale artista? Colui che nel corso di 30 anni è sempre rimasto una costante fedele nei miei ascolti, mr. Lou Reed ma… mi sono semplificata la vita? Direi di no! Cosa scegliere tra i suoi innumerevoli lavori in studio e live? Ecco, ci sono:
New York!
Perché? Perché su 14 tracce da ascoltare rigorosamente in sequenza “like a movie”, come egli stesso ci suggerisce nell’interno di copertina, non ce n’è una e dico una che non viva di vita propria ma che nell’insieme offrono un capolavoro unico e intenso, imprescindibile spaccato di musica e poesia che si snoda e si perde dentro i meandri della sua musa ispiratrice, quella New York chiassosa e controversa, dolce e crudele, sfavillante e paludosa, in cui le storie borderline di Pedro che sogna di fuggire dal “Dirty Boulevard”, di “Romeo and Juliet” col loro amore impossibile, della rabbia violenta cantata in “Busload of Faith”, dell’incubo dell’aids che si affaccia in “Halloween Parade” insieme ad un passato che “bussa alla porta ma che non voglio più ascoltare”, del tormento collettivo del Vietnam raccontato in “Xmas in February” e di quello personale per la morte di Warhol in “Dime Store Mistery”, e di tutto il peggio di questa metropoli tentacolare urlato in “Hold On”. E noi, animali metropolitani, davvero riusciremmo a stare sereni su un’isola deserta senza il travaglio tragico e magico che solo la città può offrire e che, volenti o nolenti, scorre nelle nostre vene? Buone vacanze! Claudia.
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Andrea consiglia:
Frank Zappa – Hot Rats (1969, Bizarre Records / Reprise Records)
Un album meraviglioso, ai limiti della perfezione, in cui per la prima volta Zappa si cimentò con composizioni molto vicine al jazz, e lontane dallo stile dei precedenti lavori dei Mothers Of Invention. Le straordinarie melodie, la famosissima “Peaches En Regalia” su tutte, ma anche “Son of Mr. Green Genes” e “Little Umbrellas”, per un ascolto rilassante. L’incredibile complessità degli arrangiamenti e delle strutture armoniche di “It Must Be A Camel” per una fruizione più cerebrale. E le lunghissime cavalcate “Willie the Pimp”, con la disturbata performance vocale di Captain Beefheart, e “The Gumbo Variations”, in cui gli eccezionali musicisti assoldati da Zappa si alternano con i loro assoli in interminabili jam, basti citare il virtuoso del violino Don “Sugarcane” Harris e il polistrumentista Ian Underwood (unico superstite dei Mothers da poco sciolti, che si divide fra tastiere e fiati), e in cui lo stesso Zappa sfoggia il suo particolarissimo stile come chitarrista, coraggiosissimo e del tutto anticonvenzionale. Un capolavoro anche tecnologico, perché fu uno dei primissimi album ad essere registrati con una macchina a 16 canali, nello stesso periodo in cui, ad esempio, i Beatles avevano ancora un 8 canali, e perché furono utilizzate moltissime tecniche di editing e di missaggio allora all’avanguardia. Un disco che non stanca mai, che ad ogni ascolto rivela dettagli nuovi ed avvincenti, adatto a qualsiasi momento e a qualsiasi umore. Fondamentale ed imperdibile
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Alessandro consiglia:
Bruce Springsteen – The River (1980 – CBS)
Bruce Springsteen è il working class hero per eccellenza, e The River è il disco perfetto per chi torna a casa dopo una lunga giornata di lavoro e vuole rilassarsi e dimenticarsi dei problemi che lo assillano. È un album doppio, vista la prolificità del Boss alla fine degli anni ’70.
Il Disc 1 è tutto molto veloce: automobili sfrecciano nelle strade libere dopo dure ore di lavoro e comincia la festa. A frenare il ritmo ci pensano le immense ballate Indipendence day, I wanna marry you, e la title-track The river. Tra i pezzi storici c’è Hungry Heart, canzone che Springsteen scrisse per i Ramones, ma che poi il suo manager Jon Landau gli consigliò di tenere.
Il Disc 2, invece, è più riflessivo, sebbene non manchino pezzi rockabilly come I’m rocker. Spiccano le splendide Point Blank, Stolen Car (di cui si può trovare una versione alternativa anch’essa molto bella nel cofanetto Tracks) e Drive all night, dove le strade diventano gli scenari di amori persi nel buio della notte.
The River è l’album a cui non potrei mai rinunciare. Questo perchè racconta dei sentimenti e delle emozioni di tutti i giorni: fa ballare, fa divertire, fa riflettere e ti dà la carica per affrontare ogni tipo di situazione.
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Lisa consiglia:
Nick Cave & The Bad Seeds – Let love in (1994 – Mute Records)
Negli ultimi anni sono tantissimi i concerti che ho visto, a dire il vero tutti molto belli. Un concerto però mi è rimasto nel cuore, quello di Nick Cave a Spello nel Maggio del 2008. Un magnifico concerto con uno splendido Nick Cave in forma perfetta: istrionico, auto ironico e divo al punto giusto. Per questo ho in mente il disco ‘Let love in’, ascoltato a ripetizione per tanti mesi. Un disco eccezionale, registrato nel 1994 insieme ai Bed Seeds e che, a mio parere, racchiude l’essenza di questo eclettico artista. ‘Let love in’ è un album pieno di energia, un inno all’amore urlato, quasi implorato: l’ album infatti fu generato da Nick Cave nel suo periodo di permanenza a San Paolo, Brasile, dove egli incontrò la sua musa, la stilista Viviane Carneiro, da cui ebbe un figlio e grandi pene d’amore. “Sei stata la punizione per i miei peccati”, grida in “Let Love In”. Ma quest’album è anche altro, è una introversa denuncia al conformismo e al dio denaro. In particolare ballate come “Red right end” e “Jangling Jack” fondono magnifici testi scuri e di accusa con ritmi sostenuti ed energici. In conclusione, come passare una estate senza il supporto sonoro di questo album eccezionale? Buon ascolto!
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Susanna consiglia:
Zap Mama – Zap Mama (1991 – Crammed Discs)
Album di esordio delle Zap Mama del 1991 oggi introvabile ma ripubblicato, quasi identico, nel 1993 per l’etichetta di David Byrne, Luaka Bop, col titolo di ADVENTURES IN AFROPEA. E’ un album quasi interamente a cappella con suoni tutti prodotti dalle fantastiche voci di Marie Daulne, Cecilia Kankonda, Celine Hooft, Sabine Kabongo e Sylvie Nawasadio, cinque vocalist belghe di origini africane, e l’aggiunta solo di pochi strumenti percussivi. Le musiche sono ispirate ad antichi suoni africani (da Zaire, Siria, Sud Africa, Ruanda, Tanzania) ed europei, come Din Din antica canzone d’amore, anonima, tradizionale spagnola del 16° secolo; tutti i pezzi affondano le loro origini in culture antichissime, uno fra tutti il bellissimo Mupepe canto Pigmeo del Centro Africa, e sono rielaborati con le più svariate influenze, dall’improvvisazione jazz, al gospel, al canto africano gutturale e sincopato, al rap. Ne vengono fuori suoni di grande bellezza, molto lontani dalle sonorità occidentali, sapientemente mescolati tra loro con ironia e leggerezza dalla fondatrice e principale animatrice del gruppo, Marie Daulne, che da allora non ha mai smesso di sperimentare e rendere sempre nuove tutte le sfumature della voce umana, con incastri polifonici e poliritmici innovativi, fortemente multietnici ed affascinanti.
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Fabrizio Fontanelli consiglia:
U2 – No Line On The Horizon (2009 – Mercury)
Questo non è un disco…
Come ogni capolavoro che si rispetti è un viaggio..malinconico, intrigante, potente, c’è un momento per perdersi nella gloria dell amore che guarisce dalla ferite e un tempo per perdersi di notte in un tempo privo di compagnia e conseguenze…aspettando il sole…29 anni dopo dal loro debutto un lavoro immenso, ottimamete eseguito e arrangiato da Eno e Lanois qua presenti come autori oltre che come producers…Profumi d Africa (Marocco) sino alla baia di Cadice e oltre…un disco da assaporare come un viaggio nelle parti d’ombra e di sole della nostra anima…
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Federico consiglia:
Mike Oldfield – Tubular Bells (1973 – Virgin Records)
Un ragazzo appena ventenne inaugura la Virgin Records con due suite strumentali di oltre 20 minuti suonando un’infinità di strumenti praticamente tutto da solo. Progressive, jazz, musica tradizionale, avanguardia, folk, growl primitivo si uniscono creando un opera monumentale che renderà Mike, suo malgrado, prigioniero del suo stesso lavoro.
L’8 giugno di quest’anno è uscita l’ennesima versione celebrativa con dvd, rimasterizzazioni e quant’altro, ma chi lo possiede si tenga stretto il proprio vinile datato 1973 (grazie, papà!).