Andrea Parodi Zabala:Andrea Parodi Zabala (Appaloosa/IRD/2021)
Ci sono album che portano con se odori, colori, tracciano mappe e non solo solo una mera successione di brani qualcuno ben riuscito, qualcuno filler, uno di questi è uscito nel 2021 ed è quello di un cittadino del mondo Andrea Parodi Zabala, che nel suo sito si definisce cantautore, ma è molto di più.
In primis un viaggiatore e un osservatore tra le note e tra le rime, e poi persona di riferimento per moltissimi artisti internazionali che riescono a suonare nel nostro Paese in Festivals e in clubs per tutto lo stivale.
Il suo mondo di riferimento è il genere Americana, ma sono moltissime le influenze che si ritrovano nei suoi racconti in musica e tutto è subliminato nel suo album “Andrea Parodi Zabala”. Lo abbiamo incontrato per farcelo raccontare.
Ciao Andrea e Benvenuto su Slowcult! Raccontaci la genesi di “Zabala” da che luogo è iniziato?
Parlo di luoghi perchè è un disco molto cinematografico, un vero viaggio dal quale si sentono i sapori e gli odori dei luoghi descritti. Sin dalla copertina che è appunto una strada tutta da percorrere.
Questo viaggio è cominciato probabilmente molto tempo fa a Sesto Calende, cittadina di frontiera a pochi km dalla Svizzera. C’era un promoter visionario, Carlo Carlini, che portava a suonare tutti i più grandi songwriters americani. Spesso mi chiamava ad aprire i concerti di questi cantautori che arrivano soprattutto da Austin ed è lì che sognavo un giorno di andare a registrare un mio disco. Il mio è un tributo a quell’America che ho sognato fin da ragazzino. L’America epica della beat genaration, dei film, del rock; l’America on the road fotografata dal mio amico Radoslav Lorkovic nella copertina dalle parti di Tonopah, Nevada, sulla spettacolare Route 6 di Kerouac. Grazie alla musica ho viaggiato percorrendo sempre le strade romantiche e secondarie e mi piace molto l’idea di legare la realizzazione di ogni mio disco a un viaggio. Così dopo i primi due dischi registrati a Vancouver in Canada con Bocephus King e dopo l’avventura a Santa Fe in New Mexico con la Barnettti Bros Band sono andato a Austin nel marzo del 2014. In realtà le registrazioni erano cominciate qualche mese prima a Genzano, sui Castelli Romani insieme ad Alessandro Valle, steel player di Francesco De Gregori. La campagna italiana rappresenta sicuramente l’altra anima del disco, dove il sogno del rock americano si incontra con le tradizioni e le storie della nostra musica popolare e cantautorale. C’è tanta America nei suoni, nelle visioni, ma ci sono anche le storie e il sapore della nostra provincia e un altro elemento ricorrente è sicuramente il mare.
Sul tuo sito hai elencato 18 episodi legati alla realizzazione dell’album, un ottimo modo per dare risalto ai bravissimi musicisti con cui hai viaggiato assieme.
D’altronde la tua vita è sempre stata fatta di incontri speciali sin dai primi lavori..
Il dono più grande che mi ha fatto la musica è proprio quello dell’incontro. Quando vado in America ho sempre un letto, un divano a casa di amici musicisti dove dormire, in qualunque stato. Sono stati anni bellissimi di viaggi, concerti, amicizie e così quando ho deciso di finire il disco è stato naturale condividerlo con questi straordinari musicisti e compagni di viaggio. Quando eravamo nel lockdown più rigido, in zona rossa, quando non si poteva uscire dal proprio paese mi sono immaginato nuovi confini. Non più Novedrate, Mariano Comense e Carimate bensì Nashville, New Orleans, New York, Chicago, Los Angeles e Austin ovviamente. Ho amici musicisti in tutte queste città e durante il lockdown si poteva fare musica solo a distanza e allora quelle distanze le ho azzerate. David Bromberg ha registrato la chitarra slide a Baltimora, Larry Campbell la pedal steel e il violino a Nashiville, Radoslav Lorkovic il piano e la fisarmonica a Chicago, Scarlet Rivera il suo violino da Los Angeles, Steve Wicham da Dublino, Carrie Rodriguez, David Pulkingham e David Grissom da Austin e ancora Brian Mitchell da New York. A Austin c’è stata anche una session epica con Joe Ely e James McMurtry che si sono ritrovati in studio dopo molti anni per cantare insieme su una mia canzone, Where the Wild Horses Run, che è l’unica in inglese.
Ho sempre amato le collaborazioni tra gli artisti e i super gruppi come i Los Super Seven, il disco tributo all’Interstate 10 e Buzzin’ Cousins di John Mellencamp, Joe Ely, John Prine, James McMurtry e Dwight Yoakam. Joe Ely è stato protagonista in tutti questi progetti. E Joe in Texas è una leggenda vivente e lo è stato anche per Joe Strummer e Bruce Springsteen. A cavallo tra gli anni 90 e i primi 2000 andavo ogni anno a Austin e prima di tornare a casa organizzavo una cena a casa di Joe Ely, nel suo ranch. Arrivavano tutti, Jimmy LaFave, Kevin Welch, Butch Hancock, JT Van Zandt, Sam Baker, Gurf Morlix, Eric Taylor. Io cucinavo, era il mio modo per ringraziarli, poi ci si metteva intorno a un fuoco a suonare. Si stupivano di come riuscivo a metterli tutti assieme, vivevano nella stessa città ma non si vedevano praticamente mai. Questo disco ha il sapore di quelle cene nel ranch di Joe. Con tutti i musicisti coinvolti ho condiviso momenti profondi, al di là della musica. Il ranch di Joe Ely deve avere qualcosa di magico perché ero presente quando Ryan Bingham si dichiarò alla sua futura moglie. Greg Brown è una delle voci più belle del songwriting americano, mi vengono i brividi a sentirlo cantare su una mia canzone e con Sarah Lee Guthrie e la sua famiglia c’è un’amicizia fortissima. Sarah è venuta in Italia al mio matrimonio, sono stato con lei a suonare al Woody Guthrie Folk Festival a Okemah e in Massachussets, nella chiesa di Alice di Arlo e al Dreamaway Lodge, il locale dove è nata la Rolling Thunder Review e dove hanno girato parte di Renaldo e Clara. È il bar che si vede nel film di Scorsese nella scena in cui Dylan flirta con Joan Baez. In questo cast stellare di musicisti non bisogna dimenticare gli italiani che ci suonano e che mi accompagnano dal vivo. Quando siamo al completo arriviamo ad essere addirittura in 10 sul palco, con i fiati, fisarmonica, cori e le chitarre infuocate di Alex Kid Gariazzo.
Noi Italiani all’estero. pare che solamente ora ce ne stiamo accorgendo che siamo prodotti esportabili. Ma tanti di noi musicisti e non abbiamo avuto esperienze bellissime in giro per il mondo
Credo che la musica sia un linguaggio universale e viaggiare è la parte più stimolante e di ispirazione del disco. Zabala racconta tutto questo. Durante i miei viaggi in America ho avuto la fortuna di ritrovarmi due volte sul palco con Bruce Springsteen al Paramount di Asbury Park, ma l’emozione e l’eccitazione l’ho vissuta in ogni incontro, cena, brindisi, ogni volta che passava una chitarra acustica intorno a un tavolo o a un fuoco. Qui sta l’universalità della musica, la magia che apre le porte e accorcia le distanze e il mio privilegio è stato quello di assaporare questa magia anche in Italia. Ho accompagnato spesso musicisti americani che venivano in tour e ho imparato presto a uscire dall’autostrada e attraversare l’Italia in orizzontale, attraversando i passi, fermandomi a mangiare nelle trattorie e osservando gli occhi dei miei amici americani brillare di meraviglia perché gli sembrava di essere dentro un film. E’ un gioco di specchi, la musica è una lente magica che ci fa vedere la parte più bella di questo mondo. Io cerco di raccogliere storie e di raccontarle e mi sento molto fortunato.
Ti muovi tra realizzazione di album, collaborazioni, un’etichetta discografica (Appaloosa Records) e realizzazione di eventi: come affronterai il prossimo anno ancora così incerto per quanto riguarda la musica dal vivo e la cultura in generale?
La parte più difficile è quella di non riuscire a pianificare. Io penso che fosse prevedibile questo aumento di contagi in questo periodo dell’anno così come mi aspetto un’estate serena piena di concerti. Però si continua a navigare a vista e si vive troppo nel presente mentre per questo lavoro è importante poter fare progetti. Ad aprile porterò in Italia il figlio di Ry Cooder e a maggio Scarlet Rivera (violinista anche al fianco di Bob Dylan: il famoso violino di “Hurricane” è il suo) ma c’è molta incertezza e fragilità, tanti locali stanno chiudendo perché non riescono a lavorare con continuità. Ho suonato moltissimo quest’estate e mi aspetto di fare altrettanto nei prossimi mesi ma adesso sto pensando a dei progetti alternativi per non sprecare i periodi di stop. Lo scorso anno i mesi più duri sono stati comunque molto intensi per me. Ho condotto una trasmissione radio, ho finito il mio disco e ho realizzato degli eventi in streaming. L’ultimo è andato in onda il 10 maggio, dedicato a Diego Armando Maradona. In queste settimane penso di iniziare a lavorare su nuove canzoni e di dedicarmi a un romanzo che ho cominciato ma che non ho mai avuto tempo di finire. Questo è il mio modo di aspettare la primavera per poi rimettermi on the road a suonare in giro per l’Italia. Le prime date le avrò a inizio marzo.
Per i lettori di Slowcult suggerisci pure qualche libro o album da ascoltare nel nuovo anno; Noi di solito diamo le stelle alle uscite che abbiamo consumato o amato durante l’anno. Le tue stelle?
C’è un libro che è uscito quest’anno che è legato a doppio filo col mio disco. Si chiama “Hey Sembra l’America”(Battaglia Edizioni) e l’autore è il mio amico d’infanzia Michele Di Mauro che da più di 10 anni vive e insegna latino a Baltimora. L’America del mio disco è quella idealizzata, enfatizzata dalla lente magica della musica e dei ricordi. La sua America è quella reale, incoerente, violenta che insegue il paradosso di libertà nei corridoi di un liceo del North Carolina. Tra i dischi usciti quest’anno voto l’attesissimo nuovo lavoro di James McMurtry, “The Horses and The Hounds” con le strepitose chitarre elettriche di David Grissom. Voglio citare però anche un disco in cui mi sono imbattuto per caso e che ho ascoltato a ripetizione, “Be a better me” di George Ensle. Tra le tante cose che organizzo c’è un festival dedicato a Townes Van Zandt e in questi due anni è andato in scena solo virtualmente. George Ensle è un cantautore texano che appartiene alla scuola di Townes, Guy Clark, Lyle Lovett e ha partecipato ad una delle puntate in streaming negli scorsi mesi.
Un film, ne ho visti parecchi, anche serie TV. Tra gli ultimi citerei “No Man’s Land”, “E’ stata la mano di Dio” di Sorrentino e “The Tender Bar”.
Grazie Andrea e see you down the road!
Grazie a voi!
Intervista di Fabrizio Fontanelli
Foto di Pino Bertelli
Chi parla non sa e chi sa non lo dirà mai. È così che gira tutto. Cosa succederà https://www.cineblog01.land/ nel film, mi chiedo?