Conosco Paolo Angeli dalla fine degli anni ’90, periodo nel quale militavo con grande passione e divertimento nella street band romana di ottoni e percussioni Titubanda: era l’epoca del movimento di Seattle e si era creato un bel network tra le varie bande di strada italiane. Paolo viveva a Bologna dove frequentava il DAMS e faceva parte della Banda Roncati, portando avanti nello stesso tempo anche la sua ricerca musicale individuale.
Tra il 1995 e il 2005 i suoi progetti, i dischi e i concerti si sono moltiplicati e nel 2005 Paolo si è spostato a Barcellona, dove vive ancora oggi.
Una importante affermazione internazionale arriva dal Womex 2014 che lo inserisce nella rosa dei più importanti musicisti “innovatori con radici” della scena mondiale.
Anche il 2015 è un anno ricco di soddisfazioni: il suo disco solista S’Ù viene selezionato tra i migliori album del 2015 da Europe Jazz Media ed è trasmesso nelle playlist di moltissime radio europee e statunitensi, con speciali su Vpro (Olanda), Deutschlandfunk (Germania), Radiotelevisione svizzera (RSI) rete due, el Club de Jazz (Spagna) e la prestigiosa Tinydesk Concerts di NPR Music (Stati Uniti)
La prossima data da solista sarà in Turchia, il 24 Febbraio ad Istanbul.
Poi, in duo con la violinista giapponese Takumi Fukushima, Paolo suonerà al Locomotiv di Bologna il prossimo 3 marzo, al Centro Stabile Di Cultura di Schio il 4 marzo e allo CHAMOISic di Torino il 5 marzo; un concerto in solo il 6 marzo ad Aosta presso la Cittadella dei Giovani e, a seguire, un lungo tour internazionale.
Ma vediamo di ripercorrere assieme alcuni dei momenti salienti del suo percorso artistico e umano.
Quello della chitarra sarda è un mondo vastissimo, materia di studio per etnomusicologi e appassionati (per approfondire rimandiamo alla voce specifica di Wikipedia): puoi raccontarci come è avvenuto il tuo incontro con questo strumento?
A Palau, il mio paese, si respiravano il rock e il R&B ma non c’erano occasioni, al di là della festa patronale, per assaporare la musica tradizionale. Il mio incontro con la chitarra sarda è avvenuto con un’audiocassetta, durante le lezioni di etnomusicologia di Roberto Leydi.
Nel marzo del 1993 – grazie a mio padre, il mio primo maestro – ho incontrato Giovanni Scanu, uno dei capostipiti della chitarra sarda. Aveva 87 anni, mi chiamava ‘l’inglese’ e riteneva che non potevo apprendere la musica tradizionale. Passai alcuni mesi senza tornare da lui. Poi ad orecchio tirai giù un arpeggio di Adolfo Merella, il virtuoso che lui amava di più. Rimase sorpreso e continuava a ripetermi: “Rifallo!!….Rifallo!!”.
Lui aveva passato una vita senza riuscire ad apprendere quella variazione.
In quel momento decise di accettarmi come allievo ed ha aperto le porte di una miniera. È stata una delle esperienze più ricche della mia vita, di rara intensità, durata fino all’anno della sua scomparsa all’età di 96 anni. Un’esperienza a bottega, dove la musica si impara sottopelle, senza mediazione scritta.
La realtà esterna era cambiata: io suonavo lo stile degli anni ’40/’60. Ero nella condizione surreale di essere da un lato all’avanguardia – parlo delle esperienze con Fred Frith iniziate nel 1992 – e dall’altro con un piede nel passato.
Come se nel periodo dello hard-bop un musicista suonasse il blues delle origini.
Da lì, la scelta iniziale di non suonare musica sarda in concerto e di viverla da ricercatore, con la pubblicazione del volume “Canto in re” e la collezione di 5 cd, estratto del lavoro di digitalizzazione all’Archivio Mario Cervo, la più importante collezione al mondo di musica sarda.
Ma come funziona la chitarra sarda preparata?
In questo divertente video possiamo vederti spiegare al pubblico le particolarità dello strumento: vuoi aggiungere qualcosa?
Funziona con i piedi! (Ride)… Quando si è sottoposti a troppa pressione psicologica, la migliore valvola di sfogo è cercare stimoli altrove. Io ero confuso… non sapevo cosa volevo. Da un lato zio Giovanni Scanu mi chiedeva di continuare con la tradizione più antica, dall’altra con i collettivi bolognesi utilizzavo la chitarra in funzione il più delle volte rumoristica.
Iniziai a suonare diversi strumenti, tra cui la tuba, il violoncello e la batteria. Ti parlo del periodo tra il 1993 e il 1995.
In quel periodo ho avuto la grande fortuna di incontrare Francesco Concas, fantastico artigiano del metallo. Il fine settimana ci trovavamo nella sua bottega ed essenzialmente elaboravamo dei prototipi su mia ideazione. Lui non aveva tabù e conseguentemente la chitarra cresceva come una creatura post-punk.
Un momento tragicomico fu quando decidemmo di fare un violoncello sospeso, montato tra un ponte di contrabbasso e l’innesto di un manico di violino. Quando misi tensione alle corde si sentì: CRRRAAAASHHH!! Si era sfondato il piano armonico… Concas, dopo il canonico minuto di silenzio, mi disse: “Non ti preoccupare…c’è il vinavil!”. Scoppiammo a ridere come dei matti! Questo spiega la leggerezza e l’incoscienza che ha portato alla nascita di uno strumento ibrido tra organo, piano, chitarra, basso, percussione, violoncello, ghironda.
Sappiamo che anche Pat Metheny si è innamorato di questa chitarra e che ne ha voluta una simile: questa cosa ti ha fatto piacere? Pensi che gli altri musicisti possano trarre qualcosa dalla tua invenzione?
Nel 2001, con alle spalle 5 anni di concerti in solo con il primo prototipo (una Chitarra Sarda Gaetano Miroglio da 250 mila lire), ho avuto la fortuna di aprire un suo concerto a Sant’Anna Arresi Jazz. Rimase letteralmente folgorato. Un anno dopo ci siamo incontrati nel backstage di un suo concerto a Bologna e mi ha chiesto una copia della chitarra. Ho aspettato un mese per rispondere. Pensavo che non era pensabile che il frutto di anni di conflitti creativi potesse arrivare tra le mani di un altro musicista. Ma ho accettato la sfida.
A quel punto è iniziato il lavoro con una équipe che comprendeva Concas, Stanzani e lo studio MTA per la progettazione delle parti meccaniche. È stata un’avventura spassosissima che ha permesso di sviluppare le intuizioni del primo modello nella direzione di uno strumento versatile e utilizzabile anche da altri musicisti. Credo che ogni musicista possa rapportarsi con la sua poetica a qualsiasi strumento e ottenere sonorità molto diverse. Io ci vivo in simbiosi, Pat lo ha utilizzato nel tour Orchestrion e per creare delle sonorità in overdub negli album da studio.
Da musicista – e suonatrice di uno strumento antico e, almeno in origine, “artigianale” quale è la fisarmonica – vorrei sapere anche dell’importanza che ha avuto il tuo incontro con la Liuteria Stanzani…
Giancarlo è venuto a mancare pochi mesi fa. Per me è stato un onore conoscere e vedere lavorare un grande artigiano come lui. Il rapporto si completava con suo figlio Luca, che dava la modernità necessaria al lavoro del padre, ancorato nella tradizione. E poi era tutto così umano. Ti racconto un aneddoto: Metheny arrivò in liuteria e chiese se fosse possibile fare la spalla mancante. Immagina un liutaio anziano come Giancarlo, che ha finito una chitarra e l’ha già verniciata…
Iniziò a perdere la pazienza, prese un pennarello nero, di quelli indelebili, si avvicinò alla chitarra e disegnò a mano libera la spalla mancante.
Poi prese la sega e, davanti ad un Pat Metheny sempre più preoccupato, si apprestava a tagliare la chitarra seguendo la curva che aveva tracciato con il pennarello!
“NOOOOOOO!!!! Please! What are you doing!…”
Giancarlo rispose: “Ah…soccc… ho capito come sei tu, Pat! Sei come quelli che vanno dal dottore e hanno paura della siringa! Ascolta mo’ ben, tu slegherai pure come un dannato ma noi siamo artigiani e le chitarre le facciamo con la sega ed il martello!”
Era una gioia passare le giornate da loro vedendo nascere la nuova chitarra sarda preparata, con Concas che completava l’opera costruendo tutti i prototipi meccanici.
La nascita delle due “chitarre gemelle” nella loro liuteria – esperienza documentata nel DVD Tibi dalle foto animate di Nanni Angeli – mi ha permesso di capire quanto amore e passione per la materia possa avere un liutaio. Giancarlo era in grado di capire come avrebbe suonato uno strumento solo osservando le venature di un pezzo di acero o di abete.
La Liuteria Stanzani rappresenta una fetta di storia della liuteria del ‘900 e Luca continua con grande competenza il lavoro di suo padre.
Quando si lavora sulla tradizione, c’è sempre il rischio dell’approccio iper-filologico, della museificazione. Tu creando un nuovo tipo di chitarra sarda hai fatto una scelta evidentemente sovversiva rispetto a questo atteggiamento: sei mai stato criticato da qualche “purista” per questo?
Continuamente. Io suono uno strumento ibrido e sono a mia volta un musicista meticcio. Un’amica musicista sosteneva che dobbiamo togliere la tradizione dalle mani dei tradizionalisti. Sono d’accordo. Ma dobbiamo anche toglierla dalle mani da chi pensa di conoscerla dopo averla praticata per qualche ora. Ho divorato la discografia di Camaròn de la Isla e di Paco de Lucia. Sono un grande estimatore del flamenco più puro e penso che abbiano compiuto una grandissima rivoluzione. Hanno evitato la museificazione e dato una veste contemporanea al flamenco.
Se vedi un Cajòn pensi subito al flamenco, non ti interroghi sul fatto che sia stato inserito da Paco dopo un tour in Perù (paese di origine di questa percussione).
Ora è la loro versione ad essere vista come la nuova tradizione.
Per noi quei tempi stanno maturando ora: c’è una maggiore apertura. Ma fino a qualche anno fa non appartenere ad una famiglia faceva sì che le critiche arrivassero a 360 gradi.
In Sardegna, se ci sono due cantori nella stessa stanza, scatta subito la competizione. Quello che sembra un dato negativo genera invece un meccanismo di sfida che nel canto ha prodotto pagine di straordinaria bellezza: cerca la gara di canto tra Scanu e Cubeddu di Uri nel 1963, accompagnati da Adolfo Merella, è una meraviglia!
(La gara si può ascoltare in questo video)
Nel rapporto con il mio maestro ho maturato molta durezza e compostezza. Ho sempre avuto la consapevolezza di poter suonare ‘alla sarda’ nel modo più puro, con una tecnica scomparsa, quella ad arpeggio che era stata sostituita dal plettro. Per cui ogniqualvolta venivo guardato con sufficienza, reagivo ‘alla sarda’, suonando il repertorio tradizionale con tutti i virtuosismi possibili.
Uno dei momenti per me più emozionanti è stato quando Aldo Cabitza – grandissimo chitarrista a plettro e innovatore, quello che ha introdotto l’orchestrazione nel canto a chitarra – mi ha invitato alla commemorazione di suo padre, leggenda del canto sardo, chiedendomi di suonare la mia chitarra preparata. Mi vennero i brividi: una fetta di storia della musica sarda, quella che aveva a sua volta modernizzato il linguaggio del mio maestro, mi stava legittimando e mi chiedeva di andare oltre, non imitando ma innovando la tradizione.
Io suonai sullo stesso palco dei cantadores e per il pubblico delle gare di canto, proponendo musica improvvisata e Primavera Araba: la mia versione del Fa diesis (un canto classico logudorese) accompagnandomi con archetto e pedali.
Per me ha avuto un impatto emotivo più forte quella serata che alcune esibizioni istituzionali nei teatri: è stata una chiusura del cerchio.
Hai collaborato con molti artisti della scena internazionale: abbiamo ascoltato con piacere il tuo concerto con la violinista e cantante Iva Bittova, riproposto da “Battiti” su Radio Tre nella puntata del 14 febbraio (qui il Podcast). Ora stai per tornare in Italia, dove ti esibirai assieme alla violinista giapponese Takumi Fukushima.
Ci sono altre collaborazioni in corso?
Nell’ultimo anno ha avuto inizio il duo con Iva Bittova e a giugno nascerà una collaborazione con Louis Sclavis. Con Takumi Fukushima il terreno su cui lavoriamo è il post-rock, farcito di ampie zone di improvvisazione alternate alla forma canzone. Sono reduce dalla registrazione del secondo album con Piccola Orchestra Gagarin con il violoncellista russo-israeliano Sasha Agranov e il batterista catalano Oriol Roca (con cui suono anche in duo). POG è estremamente versatile e mi permette di cambiare continuamente il ruolo all’interno della formazione. Inoltre il background del trio è talmente differenziato che è automatico incontrarsi a metà strada, tra il barocco, il jazz, la musica sarda e un ipotetico folk immaginario collocato nello spazio.
Mi piace molto anche il duo con Enkhjargal Dandarvaanchig, straordinario interprete del canto difonico e del Morin-Khuurm (strumento ad arco).
Come vedi, l’orientamento è sempre più quello di confrontarmi con innovatori con radici e con musiche tradizionali di diverse parti del mondo. Sono un curioso e penso che attraverso la pratica dell’improvvisazione si possano mettere in relazione mondi musicali molto distanti fra di loro.
Il suono della tua chitarra è presente anche nel nuovo cd di IOSONOUNCANE (Track #3, “Buio”): qual è il tuo rapporto con la cosiddetta “scena indie” italiana?
In generale io non ho un rapporto e un approccio con un genere o una scena musicale. Le cose in realtà avvengono casualmente. Ci siamo conosciuti al suo paese di origine, Buggerru, in occasione di un mio concerto organizzato da lui.
In quel periodo Jacopo era in ritiro creativo in Sardegna e, mentre guardavamo arrivare le onde che non promettevano niente di buono e stavamo attenti a non essere risucchiati dalla risacca, mi parlava del suo album.
Trovo che ci sia molto in comune tra la sua poetica, la forza del mare, la stratificazione geologica del Sulcis-Iglesiente. La sua musica respira in modo simile: c’è una continua pulsione per allontanarsi ma le onde ti sbattono a terra e tu ti aggrappi a qualcosa per non essere risucchiato. In tutto questo ci sono centinaia di piccoli dettagli che cesellano il passaggio del tempo.
Stimo tantissimo Jacopo e considero DIE un album profondamente riuscito. Si sente il respiro della Sardegna contemporanea, è sporco, ruvido, dentro ci trovi la techno che dialoga con il canto a tenore. Spero di avere occasione di ripetere l’incontro.
I tuoi dischi da solista sono autoprodotti? Qual è il percorso che in genere ti porta a decidere di realizzare un nuovo lavoro?
Quando sento le farfalle nello stomaco passo mesi chiuso nella stanza dove mi esercito quotidianamente. Registro le prove e poi faccio lunghe passeggiate riascoltando quello che ho suonato. Solo quando percepisco che il lavoro ha preso forma inizio a provare come se dovessi affrontare un live.
A quel punto vado in studio e registro in una giornata, dedicando più spazio al mixaggio e all’editing creativo. Negli ultimi due album ho registrato nello studio Casagliana, immerso nella campagna della Gallura, condizione ideale, circondato da elicriso, mirto e corbezzolo.
L’autoproduzione permette di non avere filtri durante la fase creativa. Solo in una seconda fase lavoro con i produttori associati (Le arti Malandrine e Offset) e la ReR e Goodfellas per la distribuzione. È un ottimo canale che permette di stampare circa 3000 copie e di venderle in circa uno/due anni a seconda del numero dei concerti.
Vivi a Barcellona dal 2005. Come ti trovi in Spagna? C’è un ambiente culturale e artistico interessante?
È una meraviglia! Ieri sono stato ad ascoltare gli studenti dell’ESMUC (conservatorio superiore) che eseguivano Varèse e Xenakis. Qualche giorno prima ho dedicato 2 serate al flamenco e una ad un bel concerto di jazz. Ogni mercoledì in un bar si ritrovano i musicisti della scena free improvisation della Discordian Record, una realtà che stimo molto, sopratutto per la dinamica con cui cercano di rompere steccati tra musiche di diversa estrazione.
Spesso puoi vedere musicisti, di nord e sud America o della scena dell’improvvisazione europea, in piccoli club per pochi euro. Insomma… penso che sia un laboratorio culturale importante e profondamente stimolante.
Poi c’è il mare che è per me un elemento fondamentale per mantenere un equilibrio psicologico ed una serenità interiore.
A Barcellona puoi trovare il calore della bettola di porto, dei calamari fumanti, dell’odore di fritto nelle strade e, allo stesso tempo, vedere allestita una monografia su John Cage. È la sintesi perfetta delle mie passioni e ti permette di prendere un aereo per l’Italia al costo inferiore del treno Bologna-Firenze.
Parliamo ora del Festival Isole che Parlano che organizzi assieme a tuo fratello Nanni a Palau dal lontano 1999. Cosa ti ha dato questa esperienza e come si è evoluta nel tempo la formula del Festival?
È un laboratorio aperto di produzione culturale che ha avuto inizio nel 1996. Quest’anno facciamo vent’anni. Per prima cosa dovrebbero studiarci per capire come sia possibile in Italia sopravvivere tanti anni con un’operazione controcorrente e che arriva dai movimenti antagonisti.
Allo stesso tempo è bellissimo vedere come negli anni abbiamo modificato la formula, favorendo la comunicazione con il contesto che ospita la manifestazione.
La formula utilizzata ora è stata quella collaudata negli ultimi anni del Festival: laboratori arte – infanzia, lezioni/incontri, concerti al tramonto e serali, fotografia di reportage, interazioni con il territorio, dislocamento degli eventi in aree archeologiche e cultuali (Tombe dei Giganti, Chiese Campestri), nei monumenti naturali (Roccia dell’Orso), in aree paesaggistiche di pregio (spiagge), nelle piazze ed in strutture apposite (teatro e centro di documentazione del territorio).
Nelle ultime edizioni la manifestazione, nata e cresciuta nel Comune di Palau, ha temporaneamente abbandonato l’esclusività del suo nucleo d’origine. La programmazione si è snodata tra le isole dell’arcipelago di La Maddalena e l’entroterra gallurese (dalle chiese campestri di Tempio Pausania e Palau ai monumenti archeologici del Comune di Arzachena), ponendosi come collante progettuale tra le associazioni culturali e le amministrazioni comunali dei paesi costieri (Palau, Arzachena e La Maddalena) e dei centri dell’alta Gallura (Tempio).
Il territorio di Palau ha comunque mantenuto la funzione di centro nevralgico e cuore di questo movimento organico, che ha messo in connessione diverse aree geografiche caratterizzate da una comune e profonda identità culturale. È un’esperienza di successo e aspettiamo settembre per festeggiare un traguardo così importante.
La Sardegna è una terra particolare, ricchissima di tradizioni, che ha regalato al mondo parecchi musicisti. Oggi secondo te qual è la situazione culturale nell’isola?
È un’isola in cui c’è di tutto. Se prendi il treno ti trovi all’interno di un museo a cielo aperto in cui respiri la storia del Mediterraneo. Purtroppo non c’è una risposta adeguata da parte delle istituzioni regionali. La classe politica non recepisce i cambiamenti e non dà possibilità alle giovani generazioni, che pur essendo brillanti, non possono costruire un presente al passo con i cambiamenti epocali in atto.
Questo fa sì che ci sia una oligarchia che gestisce la cultura ufficiale e, allo stesso tempo, un fermento underground che non si è mai spento. La cosa che trovo molto bella è la collaborazione tra le tante piccole e grandi realtà, la nascita di un network di associazioni culturali.
Il che è in controtendenza rispetto al carattere chiuso e poco collaborativo dei sardi. Sono sicuro che le giovani generazioni, cresciute con le low cost e le possibilità di viaggiare e tornare nell’isola, riusciranno ad afferrare il timone e a portare la Sardegna al centro della produzione culturale del sud dell’Europa.
Con quale artista della scena internazionale ti piacerebbe collaborare?
Da anni vorrei fare un unplugged con Björk. Poi ho ascoltato Blackstar di Bowie… che dire? Sono rimasto davvero colpito.
Ho 45 anni, sono cresciuto con i grandi della musica improvvisata, suonando con Iva Bittova, Fred Frith, Jon Rose, Evan Parker, Hamid Drake, Pat Metheny, Antonello Salis. Ora vorrei ascoltare qualcosa che non sia nel solco tracciato da loro: cerco dalle giovani generazioni un qualcosa che mi sorprenda e mi metta in discussione.
Vivo la musica con la stessa passione e curiosità degli inizi e guardo sempre i concerti di chi suona nella stessa serata in cui mi esibisco. Lo faccio per alimentare il dubbio e cercare di dare una veste nuova alle mie idee.
Quali sono i paesi che toccherai nell’immediato futuro? Abbiamo letto di una tournée in Giappone in aprile…
Nel 2016 si completa il progetto iniziato nell’anno precedente. Dopo il sud America (Brasile, Argentina, Uruguay) e gli Stati Uniti, ora è la volta della Turchia, del Giappone, dell’Australia, del Canada. Se non ci sono sorprese poi si prosegue per l’Asia, con la Malesia e la Corea del Sud, per poi riprendere con il Messico e continuare a fare la trottola tra i continenti.
Avere un’esposizione internazionale è un privilegio che mi dà la possibilità di conoscere il mondo e di fare continue connessioni tra l’Europa e le altre culture. Poi è sempre la Sardegna ad alimentare la mia curiosità più profonda. Non vedo l’ora che arrivi la settimana santa per vivere con i cantori giornate di canto e passioni!
Sito ufficiale di Paolo Angeli
Intervista di Ludovica Valori