Roma, Circolo degli Artisti, 11 novembre 2011
E’ assai difficile cercare di individuare all’interno dell’odierno panorama musicale una band così aperta alla sperimentazione e all’evoluzione sonora come quella degli Ulver: partendo dalla trilogia black metal dei precoci esordi, Kristoffer “Garm” Rygg ha portato la sua creatura nei territori musicali più disparati, coadiuvato dalle sofisticate trame elettroniche di Tore Ylwizaker e di Jørn H. Sværen, ai quali nel 2009 si è aggiunto lo straordinario Daniel O’Sullivan, polistrumentista inglese noto ai più come tastierista (rigorosamente Fender Rhodes) dei Guapo. Dal primo radicale cambiamento, segnato dall’uscita nel 1998 del doppio cd “Themes From William Blake’s The Marriage Of Heaven And Hell”, i nostri si sono sempre lasciati affascinare dai sound che li circondavano, dal trip hop all’industrial, fino all’elettronica ambientale, approdando in tempi recenti a una forma di prog moderno cinico e disperato (“Blood Inside”, 2005), ma allo stesso tempo etereo e sognante (“Shadows of the Sun”, 2007). Sebbene apparentemente invisibile, è sempre ben presente un filo conduttore in tutta la loro discografia, uno spirito unitario e razionale che domina con attenzione tutto ciò che dal 1994 scaturisce dalle menti di questa fondamentale band norvegese.
L’ultimo tassello del loro percorso, “Wars of the Roses”, è stato licenziato quest’anno dalla Kscope, etichetta di band quali Anathema, Anekdoten e Porcupine Tree. Gli Ulver, con questa uscita, sembrano rientrare perfettamente nel catalogo della label londinese (sulla cui home page campeggia la definizione “post progressive sound”): i brani presenti nell’album evidenziano infatti una struttura più classica, più rock, che sebbene non brillino in maniera eclatante, risultano del tutto riusciti e convincenti.
Poco dopo le 21 entriamo al Circolo degli artisti attratti dalle note che sentiamo provenire dall’interno della sala: davanti a un pubblico esiguo, che aumenterà con gli headliner (ma i presenti alla fine non saranno moltissimi), Stian Westerhus si sta esibendo da solo, armato unicamente della sua chitarra e dei suoi effetti. Membro dei Puma e dei Monolith (assieme all’attuale batterista dei Motorpsycho) e collaboratore di band quali Jaga Jazzist e gli stessi Ulver, in poco meno di mezz’ora ci immerge in una ostica, ma affascinante ricerca sonora: ad assalti violenti e taglienti degni degli Swans (Michael Gira si troverebbe davvero a suo agio a declamare le sue omelie su questi tappeti distorti) con tanto di urla nei magneti dello strumento, si alternano momenti più delicati, dominati dalla chitarra suonata con l’archetto, tecnica nella quale il chitarrista eccelle in maniera egregia, molto più dei vari Jonsì et similia. Davvero bravissimo.
Ed ecco salire alle 22 precise, in punta di piedi, i “lupi” norvegesi. Ai quattro membri ufficiali della band si uniscono Tomas Pettersen alla batteria (fenomenale) e Kristin Bøyesen alle proiezioni, che divide la postazione assieme a Jørn H. Sværen (l’altro collaboratore, Ole Alexander Halstensgård, non è invece presente). Dopo attimi di paura da parte di Daniel O’Sullivan per il silenzio emanato dalla propria testata del basso, il concerto si apre con la breve rullata che porta a “February MNX”: l’acustica del Circolo risponde più che positivamente e durante i primi quattro brani, tutti tratti dall’ultimo album, gli Ulver si dimostrano all’altezza delle loro immense prove in studio: d’altronde tutto il tour partito a marzo è incentrato sulla riproposizione di “War of the Roses”, e la band è ormai completamente a suo agio con questo repertorio.
Solo Garm, perfetto nei primi due pezzi, sembra avere delle difficoltà nelle due tracce successive, caratterizzate da un cantato con note lunghe che a tratti sembrano sfuggirgli. La sua voce è sempre completamente priva di qualsiasi effetto, e in molti passaggi, al contrario che sui dischi, appare quasi nuda. E’ da notare poi che fin dall’inizio la band non sembra essere molto padrona del palco: il cantante è defilato sulla sinistra, parla sottovoce, appare a tratti quasi spaesato, come un po’ tutti gli altri componenti: si ha insomma l’impressione che i sei (eccezion fatta per O’Sullivan) non abbiano calcato molti palchi nella loro vita. Non si tratta di una semplice mancanza di presenza scenica (anche se per una musica dal carattere sacrale come quella degli Ulver sarebbe lecito aspettarsi qualcosa di più), è ben avvertibile una sensazione di inesperienza: anche le proiezioni alle loro spalle, che potrebbero colmare questa lacuna, appaiono assai deboli e prive di incisività (a parte quelle che accompagnano i pezzi di “Blood Inside”). Ma, se pensiamo che il primo tour ufficiale della loro carriera è partito nel 2009, qualche debolezza in sede live può essere perdonata, l’elemento fondamentale, d’altronde, è la musica stessa.
Ma purtroppo, tanto appaiono convincenti le tracce tratte da “War of the Roses”, tanto si rimane perplessi e con l’amaro in bocca nell’ascoltare i brani estrapolati da “Perdition City”, uno dei loro capolavori. La prima, “Lost in Moments”, privata dello splendido assolo di sassofono, appare totalmente svuotata della sua forza originaria, protagonista ne diventa il pianoforte di Ylwizaker, ma il risultato è tutt’altro che soddisfacente. Un po’ meglio va con “Porn Piece Or The Scar Of Cold Kisses Piece 2”, ma anche qui tutto il fascino trip hop viene spazzato via da un finale rock tiratissimo che risulta privo di mordente. Ne risente anche l’esecuzione sottotono di “Island”, la quale, però, viene unita senza soluzione di continuità con “Darling Didn’t We Kill You?” che conclude la prima parte del set. Qui ci troviamo senza ombra di dubbio nel momento migliore di tutto il live: la rilettura rock di questo pezzo, tratto dall’EP “Silencing the Singing”, sembra essere stata fatta con molta più attenzione: gli accordi minori puliti di chitarra si avvicinano malignamente alle atmosfere black degli esordi e, sospinti da una batteria questa volta giustamente lanciata al massimo, portano il tutto a un risultato finale eccellente.
La band lascia il palco dopo un’ora scarsa e risale attaccando la splendida “For the Love of God”. I sei sembrano finalmente aver ripreso il pieno controllo del live, ma, come tutte le cose belle che durano poco, lasciano il pubblico interdetto e stordito suonando una cover garage-rock dei The Troggs, che stravolge e annienta in appena due minuti e mezzo le intense atmosfere che erano riusciti a creare, seppure sommariamente. Lo stesso Garm sembra quasi scusarsi con il pubblico, e riabbandona il palco. Il pubblico non può minimamente accettare un finale del genere e richiama a gran voce il gruppo, che risale eseguendo “In the Red”. Lo sconcerto di quanto appena sentito ci impedisce però di goderne a pieno, anche perché la stessa band non sembra averla provata molto (infatti sbagliano l’attacco). Se pensiamo poi che nella data precedente di Torino avevano eseguito la prima traccia di “Bergtatt” (anche se in modo approssimativo) e, in quella successiva di Parma, “Eos”, l’opener di “Shadows of the Sun” (forse il miglior lavoro della band), è lecito che nel pubblico romano nascano dei rimpianti più che motivati.
Anche se dal 2010 erano già scesi nella nostra penisola due volte, vedere una band di culto come quella degli Ulver era per molte persone un evento attesissimo e di fondamentale importanza. Non furono pochi gli italiani che alla notizia della loro prima esibizione live in assoluto partirono per la Norvegia il 30 maggio del 2009, pensando che sarebbe stato un unico evento isolato (così si vociferava). Alla notizia dei tour successivi in molti stentavano a credere di poter vedere finalmente nel proprio paese una band di questo calibro. Forse proprio il crearsi di aspettative così alte non ha permesso di godere così appieno di un’esibizione del genere. In definitiva gli Ulver si sono dimostrati una buona band live, con molti pro, ma anche tanti, tantissimi contro. L’impressione è che per affrontare i concerti sia necessario da parte loro un costante miglioramento, alla ricerca di una perfetta unità, di un’ulteriore evoluzione, esattamente come quella continua che avviene in studio. E se è necessario attendere 15 anni (quelli che intercorrono tra il primo disco e il primo live) per raggiungere questa trasformazione anche dal vivo, saremmo ben contenti di aspettare.
Recensione di Federico Forleo
foto di Davide Calabrese D’Arrigo
February MMX
Norwegian Gothic
England
September IV
Lost in Moments
Porn Piece Or The Scar Of Cold Kisses Piece 2
Island
Darling Didn’t We Kill You?
For the Love of God
66 5 4 3 2 1 (The Troggs’ cover)
In The Red