Roma, Monk Club, 20 febbraio 2016
Non sono mai troppe le parole che si spendono nei confronti dei Tortoise: anzi, a volte, sembra quasi dimenticarsi di loro. Se parliamo di post-rock i primi nomi che ci vengono in mente sono Mogwai o Godspeed You! Black Emperor. Passando all’elettronica più minimalista, Boards of Canada o Autechre. Per la psichedelia attuale uno su tutti, Motorpsycho. E i Tortoise? La lampadina si accenderà nella nostra testa soltanto in seguito, proprio a causa dell’impossibilità di tracciarne confini ben stabiliti. È davvero difficile infatti immaginare una band capace di riunire al proprio interno mondi apparantemente così distanti tra loro (forse, seppure in un ambito completamente diverso, gli Ulver), dove catalogazioni quali dub, jazz, bossa, prog, post, kraut sono perfettamente in equilibrio, senza alcuna dominanza. Tortoise è un nome che si crede di scordare, ma che puntualmente a ogni nuova uscita discografica con relativo tour a supporto torna prepotentemente a occupare il ruolo fondamentale che gli spetta.
Certo, il notevole divario tra i primi tre superlativi album e tutto ciò che è seguito nel primo decennio del nuovo secolo è più che evidente, causato principalmente da un’eccessiva intossicazione da parte della band di pad e synth elettronici. Ma fortunatamente in questo inizio di 2016 lo stato di salute dei cinque musicisti di Chicago sembra essere notevolmente migliorato (già ne avevamo avuto sentore con il lavoro del 2009 “Beacons of Ancestorship”), confermato dalla pubblicazione in fine gennaio di “The Catastrophist”, un album che sembra avere tutte le carte in regola per essere definito, senza vergogna, il lavoro più accessibile della loro carriera.
Non stupisce quindi il sold-out romano presso il Monk Club, uno spazio che si preannuncia quale nuovo centro nevralgico della musica capitolina, ormai orfana del Circolo degli Artisti (venue che li ospitò nel 2009). Al nostro ingresso l’enorme importanza rivestita dalla parte ritmica si palesa immediatamente dando un occhiata al palco dove, in primo piano, svettano come di consuetudine due batterie poste una di fronte all’altra, mentre sul lato destro trova spazio l’immancabile vibrafono.
Manca ancora qualche minuto alle 22 quando, nell’indifferenza generale, Sam Prekop, già voce e chitarra dei The Sea and the Cake (con i quali i Tortoise si esibirono per pochi fortunati nel 2002 durante il festival Enzimi), si siede alla sinistra del palco di fronte a un monumentale rack di synth modulari, indossando un improbabile berretto rosso memore di Jacques Cousteau (o di Steve Zissou che dir si voglia). La sua proposta è ostica e coraggiosa, soprattutto da proporre all’interno di un live club che secondo dopo secondo si affolla sempre di più, ma affascinante come non mai per chi ha voglia di prestare la massima attenzione: in una mezzora scarsa, arpeggiatori confluiscono con disinvoltura in risonanze sognanti, all’insegna di una kosmische musik ambientale a metà strada tra Klaus Schulze e il Manuel Göttsching del progetto Ashra. Non è poco.
Alle 22.40 ecco finalmente salire in un Monk zeppo come un uovo il quintetto americano: il primo a sedersi dietro le pelli è John Herndon, che, con il quattro delle sue bacchette, dà l’avvio al live con l’esecuzione della prima omonima traccia di apertura dell’ultimo album. Le due tastiere sono un pò sovrastate dalla sezione ritmica, ma fortunatamente andando avanti con il concerto le cose migliorano drasticamente. Da qui in poi sarà un continuo e esaltante alternarsi di strumenti da parte di Herndon, John McEntire e Dan Bitney, al contrario del chitarrista Jeff Parker che rimarrà quasi sempre fedele alla sua Gibson ES-335 e a Doug McCombs, diviso tra un normale basso Fender e un invidiabile Fender Bass VI, tra gli elementi più caratterizzanti dell’intero suono della band. Difficile dare una preferenza sullo stile dei tre percussionisti, ognuno possiede doti e personalità completamente diverse tra loro: e nei momenti in cui le due batterie vengono suonate contemporaneamente (come in Gigantes o in In Sarah, Mencken, Christ, And Beethoven There Where Women And Men) la scelta appare ancora più impossibile.
“The Catastrophist”, riproposto quasi nella sua forma completa, scorre via perfettamente, confermando Shake Hands With Danger quale migliore brano dell’album anche in sede live. Ma indubbiamente i momenti più alti vengono raggiunti con ripescaggi dal passato, come in Crest, con la sua apertura melodica che commuove a ogni ascolto, e ancora di più con i brani tratti da “TNT”: The Suspension Bridge at Iguazú Falls viene infatti accolta dal pubblico più preparato con una sentita ovazione, la già nominata In Sarah, Mencken, Christ, And Beethoven There Where Women And Men, posta come ipotetico finale del bis, sembra suggellare alla perfezione un’immensa esibizione. Ma fortunatamente nè il pubblico nè i Tortoise sono intenzionati a tornarsene così velocemente a casa, ed ecco quindi un secondo bis, il capolavoro I Set My Face to the Hillside, dove afose sonorità mediterranee, l’epicità dei western morriconiani e l’emotività del Giappone dialogano alla perfezione. A confermare l’ecletticità e la grandezza di una band che a ogni appuntamento live rinsalda la sua importanza storica nella scena musicale degli ultimi vent’anni. E questa volta cercheremo di non scordarcelo.
Recensione di Federico Forleo
Foto di Fabrizio Forno
The Catastrophist
Ox Duke
Gigantes
Shake Hands With Danger
Tesseract
The Suspension Bridge At Iguazu Falls
Gesceap
Hot Coffee
Prepare Your Coffin
High Class Slim Came Floatin’ In
Yonder Blue
At Odds With Logic
Crest
Monica
In Sarah, Mencken, Christ, And Beethoven There Where Women And Men
I Set My Face To The Hillside