Roma, Auditorium Parco della Musica, 17 Aprile 2012
Guarda la galleria fotografica
Giunti al quinto album, i Tinariwen proseguono il loro lento, incessante e coerente cammino attraverso le piste del deserto del Sahara. Seppur in formazione rimaneggiata (all’annunciata assenza di Ibrahim Ag Alhabib leader della band per tutte le date del tour italiano si è sommata anche quella del bassista Eyadou Ag Leche, ammalatosi a Milano) i restanti musicisti non hanno affatto sfigurato, reggendo decorosamente la scena per più di un’ora e mezza e spingendo buona parte del pubblico dell’Auditorium a lasciare le comode poltroncine rosse per lasciarsi andare ad una danza irrefrenabile. La formula del collettivo Tuareg è ormai collaudata ed efficace nella sua disarmante semplicità, chitarra root-blues, percussioni accompagnate dal battito delle mani, un canto ipnotico ed avvolgente inizialmente intonato dalla voce solista, poi seguito dal coro di altri cantanti. Gli arpeggi della chitarra (a volte distorta quasi alla Stevie Ray Vaughan, a volte pulita e senza particolari effetti ricordando lo stile di Johnny Lee Hooker, a volte in versione puramente acustica) creano un tessuto solido ed un tappeto sonoro su cui farsi trasportare, ammaliati dall’essenza del blues, scarnificato e ridotto all’osso in questa veste così calda seppur essenziale. Come sempre elegantemente vestiti nei loro ricchi costumi tradizionali, supportati, contrariamente a quanto avvenuto nella precedente esibizione romana dalla presenza al canto ed alle danze della corista Mina Walet Oumar, i musicisti si sono spesso alternati alla voce solista e scambiato le chitarre, quasi a voler dimostrare che nessuno ha intenzione di soppiantare il ruolo di leader al legittimo titolare temporaneamente assente; suoni e cadenze inconfondibili hanno ben presto contagiato la platea con il ritmo dei tamburi e delle zucche in una comunione spirituale sempre più rara da percepire assistendo ad un concerto, suscitando un entusiasmo ed un trasporto davvero eccezionale da parte degli spettatori presenti. Peccato per l’assenza del basso che avrebbe dato la necessaria profondità al loro suono, risultato inevitabilmente un po’ piatto e monocorde, seppur caldo, a volte infuocato come la terra da cui ha avuto origine, una terra senza confini e senza nazione.
Il risultato finale risulta tuttavia sempre molto suggestivo ed affascinante, che somiglia molto ad un’esperienza mistica dalla quale risulta difficile non rimanere influenzati a lungo anche usciti dall’Auditorium.
Recensione e foto di Fabrizio Forno
Scaletta: