Roma, circolo Arci Fanfulla, 17 aprile 2016.
Antonello Cresti, saggista, compositore e giornalista, cui dobbiamo l’invenzione di Solchi sperimentali Festival, e l’allestimento, insieme a Gatto Alieno, della sua sezione romana, si avvia a divenire mentore dell’Avanguardia italiana e non solo, in particolare nelle sue accezioni musicali. Esperto di culture alternative britanniche, con le quali è vissuto per molti anni a contatto, è autore di preziosi volumi, tra cui “Fairest Isle-L’epopea dell’electric folk britannico”, che tracciava un percorso nella storia del british folk revival, mettendolo a confronto con le culture folkloriche statunitensi, e “Lucifer over London”, un vero appassionante compendio delle culture “altre” britanniche, con particolare riferimento alla industrial music, al folk apocalittico, ed alle controculture radicali. Nel volume venivano approfondite , in una suggestiva sintesi, insieme a generi musicali di “culto”, le influenze e le reciprocità tra le varie culture “altre”, in un suggestivo viaggio nell’underground inglese tra filosofia ed esoterismo.
Ed il successivo “Come to the Sabbat” approfondiva la tematica del rapporto tra culture giovanili alternative ed esoterismo, dando voce anche ad alcuni dei più significativi musicisti, interpreti delle controculture, che fanno di questa isola, apparentemente terra della razionalità, un autentico “luogo dell’incanto”; l’Autore approfondiva in particolare il rapporto tra musicalità “altre” e le culture “neopagane” presenti nell’isola di Albione, con interviste molto approfondite ed illuminanti, come quella a Patrick Leagas, fondatore dei Sixth Comm.
Ma è con “Solchi Sperimentali-Una guida alle musiche altre” che l’autore ci porta a spaziare nel mondo vasto e sconosciuto delle musiche alternative al “mainstream” dominante, spaziando dai grandissimi e misconosciuti Current 93, di cui viene attentamente analizzato il classico “Nature Unveiled”, capolavoro della “industrial music” di matrice esoterica, senza omettere che la loro trasformazione e maturazione porterà all’invenzione di un genere, il “folk apocalittico” (a questo proposito avremmo visto con particolare favore ed interesse una analisi approfondita anche dell’album “Thunder Perfect Mind”, capostipite del genere), a Terry Riley, ai grandissimi, spirituali Between, sino agli immaginifici Univers Zero, geniali sperimentatori in ambito “prog”, ed ai seminali, ma fondamentali Clock Dva, di matrice “industrial, post punk”, mentre con il recentissimo “Solchi sperimentali Italia”, un’opera monumentale, aggiornatissima, apre lo scrigno dei segreti della nostra musica più preziosa e nascosta, ove si trovano autentiche gemme ed opere misconosciute di arcano splendore, che per la loro bellezza, sembravano destinate a rimanere privilegio di pochi. Il volume è costituito da centinaia di profili attenti e profondi sulle esperienze artistiche più nascoste del nostro paese, e da 170 interviste. Si passa così dai misteriosi, esoterici Ain Soph, band di culto degli anni ottanta, ma ancora attiva, per approdare a Roberto Laneri, sin da quando fondò Prima Materia, al compianto, geniale Claudio Rocchi, immaginifico poeta, uno dei massimi creatori del genere “prog”, agli Aktuala, progenitori, e con ben maggiore spessore, della moderna “ethno music”. Un libro unico, necessario, che mancava totalmente nel nostro paese, di cui dobbiamo essere molto grati all’Autore, che ha realizzato uno strumento indispensabile di approfondimento culturale.
Ma veniamo alla caleidoscopica serata del Solchi Sperimentali Fest, dove abbiamo avuto modo di apprezzare artisti noti, ma anche sconosciuti, seppure molto significativi, spaziando dalla musica ambient alla gotica, dall’industrial alla psichedelia, al rumorismo, avendo modo di conoscere o approfondire spazi artistici ed interiori di una qualità ben diversa dalla musica che ci viene incessantemente propinata dai media dominanti.
ARTURO STALTERI: I Suoni dell’Infinito
Arturo Stàlteri è uno dei più grandi e misconosciuti musicisti italiani della nostra epoca. Polistrumentista, musicologo, concertista e compositore di grande versatilità, dette inizio alla sua esperienza artistica con il progetto “Pierrot Lunaire”, che si incarnò, negli anni settanta, in una delle band più luminose di “Italian Prog”, autrice di brani di intenso ed evocativo lirismo, di cui fu leader, nel quale armonie di stampo prettamente neoclassico si sposavano mirabilmente all’invenzione di sonorità per l’epoca estremamente innovative.
Non a caso il nome fu scelto pensando all’opera di Schomberg, in omaggio all’avanguardia ed alla sperimentazione di cui i fondatori, Stàlteri e Chiocchio si nutrivano.
Musicista di formazione classica, ma amante dei Rolling Stones, e del rock moderno, l’Autore sin dagli esordi si dimostra dotato di notevole ispirazione poetico musicale, capace di creare atmosfere fortemente evocative, e pertanto orientato verso la contaminazione tra i generi più diversi, nell’ambito di un fecondo sincretismo culturale. Egli ha composto numerosi album, anche dopo la fine dei Pierrot Lunaire, come lo splendido “Flowers”, cui l’artista è particolarmente legato, dove oltre ad inventare autentiche gemme sonore, reinterpretava brani di Sakamoto, Corea, Philip Glass, Debussy e Way, creando un album dai mille suoni costantemente caratterizzato da profonda intensità ed estrema fascinazione.
Abbandonato il progetto, troppo all’avanguardia per i tempi, l’Artista si dedicò alla prosecuzione della sua carriera solista ricca di spostamenti tematici, ma costantemente creativa ed inventiva, ispirata prevalentemente a sonorità ambient, anche quando riscriveva Battiato (con cui avrà numerose condivisioni artistiche) o reinterpretava brani della tradizione classica.
Nell’ambito delle sue molteplici esperienze, ha avuto l’opportunità di collaborare con David Sylvian, Sonja Kristina, Grazia di Michele, Rino Gaetano e molti altri musicisti, e di partecipare alla realizzazione del film “Musikanten” di Franco Battiato, ”, cui lo lega una forte affinità spirituale e poetica, nonchè di partecipare anche ad “Attraversando il Bardo” del medesimo Autore.
Musicista originalissimo, portatore di una poetica eterea propria di un moderno romanticismo attraversato dalla Classicità, Arturo Stàlteri si trova in profonda sintonia spirituale con i grandi creatori delle sonorità contemporanee, come Philip Glass, Wim Mertens, Ryuichi Sakamoto, i Sigur Ròs, scultori di suoni che hanno, nel corso del tempo, contribuito a ridefinire la musicalità contemporanea.
Egli, in una atmosfera raccolta, quasi eterea, ci ha offerto una splendida riedizione di “In The Court of a Crimson King”, omaggio ai leggendari King Crimson, poi il vertiginoso, magnifico notturno in do minore “Starry Night”, tratto dall’album Child of the Moon, ove in dieci splendidi Notturni, che rappresentano brani generalmente più corposi del minimalismo da cui traggono ispirazione, tende ad avvicinarsi a certe composizioni di Eric Satie, e per certi versi a Debussy, senza allontanarsi da una visione romantica e suggestiva ispirata dalla luna. A seguire ha eseguito l’instrumental “Centro di Gravità Permanente”, omaggio a Battiato, anch’esso di notevole suggestione, poi il nuovo preludio “Geyser”, caratterizzato da una struttura melodica che rimanda agli incantevoli scenari naturali scandinavi, poi “The Ride of The Rohirrim”, dall’album “Il Decimo Anello”, ispirata alla cultura celtica ed a Tolkien, il cui immaginario gli è da sempre stato affine, per concludere infine con “Scarlet”, di sublime, suggestiva classicità. Un soffuso pianismo di lirica, struggente bellezza, privo di qualunque connotazione intellettualistica, un poetico inno all’Arte rivista nel suo divenire nella profondità dello spirito umano. L’esatto contrario, per ispirazione poetica e intensità creativa, delle derive commerciali di molti minimalisti e neoclassici che invadono i media del nostro paese.
DBPIT &XxeNa: Un oscuro sentire
Questo duo, autore di un progetto audio video di matrice industrial, ci ha proposto una suggestiva sintesi dell’album Lympha Obscura – Ghosts from the Voynich Manuscript.
Ispirati dal ritrovamento di un misterioso manoscritto scritto in linguaggio cifrato, corredato da immagini oscure di piante sconosciute, figure femminili, diagrammi forse di natura astronomica assolutamente incomprensibili, probabilmente risalente al Rinascimento italiano, un testo di natura scientifica esoterica, il duo rumorista, che si avvale dell’opera dell’artista visuale Daniele Pinti, ci affascina con un suono lento, ipnotico, mentre sullo schermo le immagini di una donna, una figura fantasmatica, si compongono, si decompongono, cambiano forma, si fondono con il paesaggio. La musica rappresenta efficacemente l’incomprensibilità dell’arcano, criptico, alchemico testo, oggi conservato presso l’Università americana di Yale. La perpetua generazione, rigenerazione, composizione, scomposizione della figura femminile rende una visualità tetra, malata, gotica e fortemente evocativa. La musica contribuisce, pulsante, ossessiva, a determinare un contesto che sottolinea l’estrema imperscrutabilità del suddetto Codice, la cui lettura si auspica possa avvenire una volta libera da dogmi. Performance affascinante, dove l’aspetto puramente visuale, fortemente disturbante, si fonde mirabilmente alla espressione sonora, di matrice post industrial, fortemente ritualistica, articolata su perturbanti distorsioni, dando ad essa forte risalto. L’insieme di musica, poesia di Fabio Magnasciutti e cornici fotografiche rende efficacemente il senso di una angosciosa perdita del sé a contatto con l’ineffabile, l’inconoscibile, in un viaggio ipnagogico negli abissi dell’inconscio, ove l’anelito al soprannaturale insito nello spirito umano trova una suggestiva, inquietante rappresentazione.
GustoForte: il Caos Sonoro
Un gruppo storico dell’Avanguardia romana, che nasce negli anni ottanta, tornato alla luce di recente, con la pubblicazione di un album, ha arricchito la serata con una performance tesa e violenta, cupa e ipnotica.
Uno stile free form, fortemente “no wave”, acido e corrosivo, un suono selvaggio, abrasivo, appassionante, chitarre distorte, fiati che hanno reso la performance totalmente inusuale, corredata da un’aspra psichedelia, che raffigura questa Roma devastata dai politici e dalle bande criminali, nella decadenza dei suoi fasti culturali, e degli antichi splendori della civiltà pagana. Una città perduta, di cui GustoForte celebra un ideale funerale concettuale.
Una performance decisamente d’avanguardia, anzi addirittura fuori dai canoni della espressività dell’underground, e quindi particolarmente insolita per la scena romana ed anche italiana, sullo stile della New York più cupa e disperata di fine anni ottanta. Un suono schoccante, violento, per nulla incline alla melodia, che si muove tra free rock, percussivismo ancestrale, elementi “industrial”, noise ed avant noise, musica concreta, caratterizzato da una elettronica paranoide, che rende un senso di straniante inquietudine, la quale, però, più che mera depressione, trasmette un misterioso, insolito fascino, difficilmente descrivibile con una analisi razionale.
Un’esperienza estrema, iconoclasta, caratterizzata da una devastante furia sonora, che ci ha rammentato la no wave newyorchese di James Chance ed i Contorsions e di Lydia Lunch, con elementi sonori ancora più radicali.
FABBAN & LUCIANO LAMANNA: L’alienazione metropolitana
Un duo abbastanza sconcertante, anche questo, che si presenta per la prima volta unito, per un suono fortemente abrasivo e violento, un “doom metal” abbastanza immaginifico, con sfumature noise ed electro wave, con elementi techno, opprimente, selvaggio, ma efficace. Un tappeto di suoni violento e provocatorio, un rumorismo industrial che convince, e lascia frastornati. D’altro canto Fabban proviene dal progetto Aborym, una band di death metal sperimentale, ed è compartecipe, in qualità di vocalist, successivamente, del progetto Void of Silence, dove una matrice fortemente esoterica aggregava elementi “black metal”,” stoner” e doom, insieme ad un “dark ambient” originale.
Il disordine, lo spaesamento, la mancanza di punti di riferimento sono molto ben rappresentati dalla musica del duo, come allucinata espressione della paranoia metropolitana, della proiezione di una solitudine lancinante e definitiva, che ci ricorda certi brani dei Nine Inch Nails, e dei Coil. E tutto ciò è coerente con la concezione artistica di Fabban, che afferma di essere uno sperimentatore, uno scultore di suoni, dei quali non ricerca certamente l’estetica, bensì la sostanza.
Circus Joy: la rabbia psichedelica
Riemersi da anni di oblio, la band di culto dell’underground romano Circus Joy, formata dal poeta underground Corrado Mancini, avvalendosi del contributo di icone dell’alternative rock come Marcello Fraioli in arte Spectre, componente degli Ain Soph, leggendario gruppo ritual esoterico di matrice “neofolk/dark ambient” di culto della capitale, (che abbiamo avuto modo recentemente di ammirare in una oscura performance al Villa Festival del 2015, nella suggestiva location di Villa Aganoor Pompilj, sul lago Trasimeno), e ClauDedi (ex Ain Soph) ci regalano una breve ma intensa performance, di grande impatto sonoro e visivo, quasi un canto devozionale al mito Velvet Underground: un suono rabbioso, aspro, una avvolgente psichedelia, corredata da immagini floreali, fortemente lisergiche che corrono su di uno schermo retrostante la band. Chitarre avvolgenti, aspre, una sezione ritmica eccellente, un cantato rabbioso, fortemente drammatico ed evocativo contribuiscono a rappresentare schegge sonore di grande impatto e fascinazione. La migliore tradizione alternativa degli anni sessanta mescolata alla rabbia “punk” dei settanta, da Iggy Pop alla psichedelia lancinante dei Television, per una performance di grande impatto emotivo. Sono passati molti anni dal loro esordio, nei lontani anni ottanta, ma le tematiche della band rimangono le stesse in un magma sonoro incandescente, che vive nel dolore dell’anima ferita: amore, odio, sesso, solitudine, sofferenza, disperazione e rabbia, sentimenti estremi.
Quasi un tentativo di esorcizzazione, un oscuro, disperato mantra sonoro sul baratro della follia, a volte anelata, ma costantemente rigettata. “Seta su Seta”, dall’umore lisergico, caratterizzata dalla voce teatrale, drammatica di Corrado Mancini, poi “Desolazione”, e “Non puoi nulla” i brani che abbiamo riconosciuto, il primo tratto dall’ultimo album “Laetitia”, del 2010, (che era dedicato al tragico evento della morte dell’amica Letizia, alla quale dedicavano un toccante e poetico epitaffio), comunque tutti trascinanti, suggestivi. Per un paese come il nostro, privo di una reale cultura musicale, che, a livello mediatico, ben difficilmente oltrepassa i limiti della banale melodia italica, una performance di questa natura è assolutamente inconcepibile.
Un festival molto innovativo, pienamente riuscito, caratterizzato dal sincretismo culturale dell’autore del prezioso volume da cui trae il nome, e che è stato corredato, nei momenti di pausa, anche dallo speciale dj set di Alex Cereda (Sublima); esso si propone di essere itinerante, e nella fattispecie ha cercato di dare rappresentazione ad una scena alternativa romana, fortemente creativa, ma piuttosto dispersa, che ha visto la presentazione di musiche apparentemente lontane, ma legate tra loro dal filo della creatività artistica e dell’invenzione sonora.
Abbiamo la speranza che l’esperienza romana possa essere ripetuta ed approfondita, con cadenza almeno annuale, magari aggiungendo un’altra serata per dare voce al multiforme mondo dell’avanguardia, protetto dall’oscurità, ma che dovrebbe finalmente trovare una sua più compiuta espressione ed una qualche forma di visibilità.
Reportage di Dark Rider