Roma, Ippodromo delle Capannelle, 16 giugno 2015
Dopo la data sold-out di Milano svoltasi a febbraio, ritornano gli Slipknot nella penisola, stavolta facendo tappa e per la prima volta nella loro carriera direttamente nella capitale all’interno della rassegna Rock in Roma all’Ippodromo delle Capannelle. La serata inizia sotto un acquazzone estivo che prelude all’ingresso delle due band d’apertura, ovvero i Temperance e gli At the Gates, lasciando presagire un’esibizione tutt’altro che riuscita visti i problemi di acustica avvertibili durante le esecuzioni dei due gruppi di supporto, specialmente nel caso degli At the Gates. Ma quando salgono sul palco i nove dell’Iowa la musica (è proprio il caso di dirlo) cambia immediatamente: con le consuete tute da carcerato abbinate alle maschere d’ordinanza, la voce di Corey Taylor rompe gli indugi ed immediatamente infiamma il pubblico presente (non moltissimo, per la cronaca) con l’attacco di XIX seguito dall’infuocata Sarcastrophe. In verità, c’era molta curiosità tra i maggots romani nel vedere all’opera la band orfana del formidabile batterista Joey Jordison, sostituito per motivi poco chiari da Jay Weinberg circa un anno fa: ed il risultato non delude le aspettative, visto che Weinberg pur non possedendo la tecnica straordinaria di Jordyson si dimostra all’altezza del proprio compito, regalando un’esibizione perfetta in merito a potenza e pulizia del suono, dimostrandosi debitamente affiatato al bassista Alessandro Venturella, sorta di turnista “fisso” nei live degli Slipknot dopo la dipartita di Paul Grey. E lo spettacolo pesca a piene mani proprio da The Grey Chapter, ultimo lavoro della band di Des Moines pubblicato nel 2014 e dal quale vengono estratte, oltre le sopracitate track d’apertura, cavalli di battaglia quali Killpop o The devil in I, assieme a brani come The Heretic Anthem, AOV o Custer, pezzo con la quale la band chiude la prima parte dello spettacolo in attesa dei bis. Sembra logico che, trattandosi di un complesso formato da ben nove elementi, le titubanze sulla resa live fossero parecchie, ma gli Slipknot fugano velocemente i dubbi in proposito. Il loro metal-core si è fatto negli anni più smussato e l’impulsività ha lasciato spazio a momenti nei quali la band dimostra chiaramente di saper suonare ed anche bene, la cadenza melodica rispetto agli esordi non agisce per sottrazione, tutt’al più integra perfettamente il lavoro delle chitarre dei giganteschi James Root e Mick Thomson, mentre la voce di Corey Taylor emerge tanto nel potentissimo scream (in barba a coloro che vedevano il vocalist in calo) quanto nel passaggio al cantato più melodico, esemplificato alla perfezione dall’eccellente dittico formato da Vermillion pt. 2 unita alla storica Wait and Bleed, fusione perfetta delle due anime canore di Taylor. Appare inoltre scontato che un live degli Slipknot faccia perno sull’impatto scenico del gruppo: oltre al sound martellante ed all’iconografia da b-movie archetipica, sul palco partono fiammeggianti lingue di fuoco tra un brano e l’altro, mentre i percussionisti Shawn Crahan (il clown) e Chris Fehn (Pinocchio) vengono sollevati verso l’alto assieme alle relative strumentazioni da robuste molle meccaniche, il tutto assai più funzionale all’avanspettacolo che alle partiture musicali. Completano la formazione il DJ Sid Wilson (anch’egli impegnatissimo nell’aizzare il pubblico) ed il tastierista ed esperto di campionamenti Craig Jones, ovvero colui che controlla gli effetti delle chitarre della band, sia nei riff d’accompagnamento che negli assolo. Nell’ora e mezzo abbondante di spettacolo, trovano spazio brani oramai divenuti veri e propri must come Before I forget e Duality o come la travolgente Eyel ess, prima che il pubblico venga coinvolto da Taylor nel consueto show di Spit it out, con tanto di “salto in aria” degli astanti all’interno di una versione che quasi raddoppia in durata rispetto a quella del CD. E proprio Corey Taylor si dimostra vero animale da palcoscenico (specie sempre più in estinzione tra i cantanti metal), grazie alle doti vocali ineccepibili (non sbaglierà praticamente una nota in tutta la serata) sia nello scream sopra descritto che negli accenti melodici, tra un impropero e l’altro verso la religione ed un continuo ringraziamento ai fan romani accorsi per vedere all’opera la band. I bis chiudono degnamente la serata, con le devastanti versioni di Sic e dell’inno generazionale People = Shit, prima che il pubblico venga congedato da una violentissima Surfacing, esemplare punto esclamativo ad una performance rabbiosa e dalla qualità superiore a quella prevista forse anche dal più ottimista degli appassionati. Già, perché se gli Slipknot vengono forse enfatizzati da alcuni addetti ai lavori, ciò risulta pari ai detrattori che poco o nulla hanno compreso della proposta musicale offerta dalla band statunitense, capace di vendere in carriera oltre dieci milioni di dischi e fondendo alla perfezione gli stilemi di certo nu-metal (appellativo ricusato dal gruppo) con influenze death e dai tratti thrash, invaso da rigurgiti di industrial senza snaturare mai l’originalità che nel lontano 1999 li ha lanciati al grande pubblico sotto l’egida del guru Ross Robinson. A distanza di quindici anni, gli Slipknot hanno dimostrato di continuare a vendere non esclusivamente per l’immagine con la quale si presentano, bensì per i contenuti musicali ancora all’altezza e per un impatto devastante che dal vivo non mostra ancora crepe. E scusate se è poco.
Recensione di Fabrizio ’82