Roma, Ippodromo delle Capannelle, 22 settembre 2012
Data l’importanza del recente concerto della band di Oxford e l’apprezzamento della loro musica che accomuna alcuni redattori di Slowcult, ecco una serie di nostri commenti più o meno brevi allo show dei Radiohead, visti da varie angolazioni e punti di vista.
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Federico Forleo: l’unica vera rock band
Per più di quindici anni noi romani li abbiamo rincorsi con gioia in lungo e in largo per tutta la penisola (Firenze per fortuna è vicina). La notizia della data nella capitale ci ha fatto quindi gridare di gioia, tra la ricerca di biglietti andati misteriosamente esauriti in poche ore (scoprendo poi che il giorno stesso si trovavano tranquillamente ai botteghini), e il rinvio a settembre a causa della tragedia che li ha colpiti a Toronto. E chi temeva l’inadeguatezza di una location come quella di Capannelle e l’inciviltà del pubblico si è dovuto fortunatamente ricredere (a parte il blocco totale della circolazione post-concerto, un vero delirio).
Tralasciamo poi l’apertura affidata all’ inspiegabile fenomeno Caribou, il nulla fatto musica, che già molti romani avevano imparato a odiare l’anno scorso a Villa Ada quando suonò con i Battles.
I Radiohead sono finalmente a Roma, e prendono posto alle 21.30 su un palco enorme, altissimo: la scenografia, dominata da schermi che scendono dall’alto e cambiano posizione a ogni canzone, è semplicemente straordinaria. In uno show del genere trovare imperfezioni è come cercare il pelo nell’uovo: ma, se si ha voglia di trasformarsi in guastafeste, ecco cosa si potrebbe tirare fuori: il suono è si limpidissimo, ma a tratti anche troppo, le chitarre sembrano molte piccole, nascoste, e alcuni passaggi appaiono svuotati, come i finali di I Might Be Wrong e Everything In Its Right Place. I momenti più alti del concerto saranno infatti quelli più pacati (su tutte Pyramid Song, Nude e Exit Music), oltre a una commovente Kid A. Anche l’utilizzo per quasi 3/4 del concerto della doppia batteria, soprattutto sui brani meno recenti, crea lievemente un senso di spaesamento: la band appare più rigida e fredda del solito, quasi imprigionata all’interno dei suoi ritmi (la seconda traccia suonata, Bloom, è risultata assai confusionaria). Thom Yorke rimane indiscutibilmente una delle voci più importanti di sempre (capace, come in Give Up The Ghost, di costruire linee vocali straordinarie su un semplice giro di Re maggiore-La minore), ma anche lui a tratti, soprattutto sui pezzi più pesanti, sembra accusare qualche difficoltà.
Ma, come detto in precedenza, tutte queste micro-critiche vengono immediatamente fagocitate dalla grandezza complessiva dello show messo in piedi dalla banda di Oxford, i Radiohead: l’unica vera grande rock band rimasta in circolazione.
Attilio: Meraviglie nella squallida Roma
al concerto all’organizzazione
Li ho aspettati per anni , Yorke e soci, e non sono andato deluso. Non dagli oxoniani, perlomeno. Perchè le orecchie hanno goduto della maniacale preparazione ed esecuzione. Anche gli occhi hanno avuto la loro parte, geniale il sistema di specchi-schermi semoventi, ma il trip è stato sostanzialmente uditivo. Aggiungiamo anche Clive Deamer, uno che stava dietro alle pelli su Dummy dei Portishead, per permettersi per lunghi tratti la doppia batteria, tanto per farcire un già succulento piatto di portata.
Sulla scaletta non mi dilungo se non per dire che In Rainbows resta un gioiello inarrivabile (versioni di 15 step, Nude, House of Cards e Reckoner da brividi) e che Exit Music suonata e sussurrata in un silenzio irreale vale da sola il prezzo del biglietto.
Mi dilungo, purtroppo, sulle dolenti note, ossia la solita organizzazione che definire deficitaria è un complimento. Spostare il palco di quei trecento metri rispetto al solito per permettere l’ingresso di altre 10mila persone in più rispetto ai soliti numeri ha messo tristemente a nudo lo sfacelo che stiamo vivendo nella nostra (non più) splendida città. Il deflusso a fine spettacolo è stato un film dell’orrore, probabilmente ancora qualcuno starà cercando il modo di tornare a casa, servizio pubblico inesistente o , dove presente, assolutamente non in grado di gestire la situazione.
Si narra di parcheggi capestro a 10 euro, astanti costretti a fare chilometri a piedi senza alcun mezzo di supporto per arrivare all’ingresso e ingorghi senza via di scampo, una vergogna !
Per quanto mi riguarda, è stata l’ultima volta che Capannelle mi ha visto spettatore ad eventi simili, meglio spendere di più e viverli all’estero (e rodersi il fegato per come in qualsiasi altra parte del mondo eventi simili vengano vissuti in modalità decisamente più consone).
Queste meraviglie di spettacoli purtroppo non ce li meritiamo !
Fabrizio Forno: Il fascino discreto della perfetta love song
Ore 22.57, da poco i Radiohead si sono ripresentati sul palco, un paio di bis sono scivolati via quando Thom Yorke annuncia l’arrivo di una ‘love song’. Qualcosa mi fa presagire che si tratti proprio di quella love song: un auspicio, un’intuizione, o forse una semplice botta di culo ed ecco arrivare House of Cards, uno dei diamanti del diadema ‘In Rainbows”: ed ecco svanire d’incanto tutta la stanchezza di un lungo pomeriggio di attesa e delle difficoltà per raggiungere Capannelle (ma può esistere un posto più scomodo??). Torniamo alla canzone: come spesso accade, un brano diventa un classico, una piera miliare quando riesce a coniugare semplicità e complessità, i classici tre accordi con una struttura melodica ed armonica che resta impressa nella memoria e scatena immediatamente sensazioni che vanno al di là del pentagramma e che sconfinano inevitabilmente nell’arte. Non voglio essere tuo amico, voglio essere il tuo amante non importa come inizia, non importa come finisce…
Tutto il concerto è stata un’esperienza tantrica, la band è abilissima a rilasciare e trattenere, arrivare al bordo del precipizio senza mai scivolare nel banale, accelerare per poi sapere come rallentare per fermarsi a ragionare: ebbene, qui prevale il sentimento, la passione, il cuore sul cervello. Grazie per avermi fatto provare tutto questo, fosse stato solo per questa canzone, ne sarebbe comunque valsa la pena, nonostante l’allucinante odissea patita per tornare a casa alle due del mattino.
Dark Rider: Suoni e Visioni dallo Spazio Profondo
Come fantastiche creature lunari, provenienti dall’immaginario di un film di Ridley Scott, i Radiohead sono apparsi alle Capannelle per offrirci un lungo, fantastico concerto, ripagandoci della inumana fatica sostenuta, in un traffico bloccato da ore, per raggiungerli.
Il palco, splendida astronave multimediale di immagini e suoni elettronici, costituisce da solo un magnifico manifesto di “Visual Art”, realizzando uno spettacolo nello spettacolo.
La loro performance, tesa, fortemente ipnotica è stata accolta da un pubblico composto e fedele, con devozione, quasi in religioso silenzio, per sottolineare l’unicità dell’evento, e la loro natura di autentiche icone del rock vero, lontane mille miglia dallo show business e dal mercato che crea continuamente falsi miti di plastica, ed al quale, semmai, sono loro ad imporre le regole.
La loro musica visionaria e crepuscolare, dalla bellezza sublime e stralunata, ha immediatamente qualificato quello che sarà ricordato come l’evento rock di questa stagione. Figli della modernità, dolorosi profeti, interpretano la solitudine, l’incomunicabilità tra gli esseri umani ed il disincanto dei nostri tempi, trasfigurandoli in aspra e sublime poesia.
L’inizio è raggelante, con la algida canzone elettronica Lotus Flower, dall’ultimo album The King of Limbs, di cui verranno eseguiti molti brani, basati come anche Bloom e Give up the Ghost sul progressivo accumulo di diversi strati sonori e loop. Brani semplici, apparentemente freddi, cui la splendida voce in falsetto di Thom Yorke conferisce la dolcezza di una consapevolmente dolorosa umanità. The Gloaming, cupa canzone dissonante, tratta da Heil To The Thief lamenta la crescita dell’irrazionalismo e dell’intolleranza religiosa nel mondo, mentre la sincopata canzone elettronica 15 Steps, tratta da In Rainbows, ci riporta a più sereni ritmi dance, ma è Reckoner, misteriosa, lirica ed avvolgente, a entusiasmare il pubblico per la sua magia ed intensità, seguita da Nude, straniante, doloroso calvario dell’anima, e dall’avvolgente, immaginifica Arpeggi.
L’intenso lirismo di Pyramid Song, da Amnesiac, vero anthem dell’ensemble, con interpretazione da brivido della voce di Thom Yorke ci commuove tutti, e così l’altro inno del gruppo, la straordinaria canzone psichedelica Paranoid Android, tratta dallo storico album O.k. Computer, nel quale l’artista si lancia contro gli yuppies corrotti e cocainomani, dopodichè il concerto, a seguito dell’esecuzione di numerosi altri brani, tra i quali rifulge il lirismo elettronico di Kid A, dall’omonimo album, si conclude con la dolce Everything in its Right Place, tratta anch’essa dallo splendido, sperimentale album Kid A.
Una cascata di suoni visionari e apocalittici, di campionamenti e loop elettronici, di chitarre e tastiere dissonanti, di meravigliose melodie, che rendono questa Band, in cui convivono elementi di ambient music, di progressive, di free jazz, di avanguardia contemporanea (il geniale chitarrista Johnny Greenwood ha composto di recente un album con Krzysztof Penderecki), di musica elettronica e di psichedelia, decisamente unica sulle scene del pianeta: essa ci indica gli impervi e suggestivi sentieri della Musica del Futuro, esprimendo un pathos ed una tensione emotiva che ci parlano del presente, e dei tempi desolati che stiamo vivendo, in una mirabile sintesi di elettronica futurista e di moderno umanesimo.
Andrea Carletti: Come voi nessuno ormai
Che i Radiohead siano l’ultima grande rock band è fuor di dubbio: sono gli unici che in questo inizio di millennio riescono a coniugare i grandissimi numeri con una musica di qualità, di ricerca, che cerca di non ripetersi e ha ancora voglia di dire qualcosa di nuovo, sia rispetto al proprio percorso personale, sia rispetto al percorso che il rock ha seguito nella sua storia, specialmente in un momento come questo in cui le classifiche e le grandi arene sono piene di gruppi che si limitano a proporre brutte versioni dei cliché del passato.
A Roma non suonavano dal 1995 (al concertone del Primo Maggio), e infatti negli anni passati li ho inseguiti in giro per l’Italia. Palco enorme, light show e schermi meravigliosi, suono perfetto ricco di dettagli. La scaletta è sbilanciata sugli ultimi due album, “In Rainbows” e “The King Of Limbs”, che ne occupano quasi metà, e perle come “Lotus Flower” (che apre il concerto), una ritmatissima “Morning Mr. Magpie”, “Weird Fishes/Arpeggi” o “Nude” sono sublimi dal vivo. Ma c’è spazio anche per alcune magnifiche sorprese, come la celestiale “Kid A” o una potentissima “Planet Telex”, o per brani nuovi come “Staircase” e la ballata “The Daily Mail”.
Per chi ama le scalette da greatest hits manca qualche superclassico, ma il concerto dei cinque di Oxford (in questo tour accompagnati anche dal batterista dei Portishead Clive Deamer), per i romani sicuramente l’evento dell’anno, è comunque un continuo susseguirsi di suggestioni diverse e intensissime, guidate dalla inarrivabile voce di Thom Yorke. I Radiohead sono in grado di far ballare tutti i 25000 dell’Ippodromo di Capannelle con “Idioteque”, di farli calare un impressionante silenzio con “Exit Music (For A Film)”, di immergerli nello struggente mare di “Give Up The Ghost”, di travolgerli con una enorme “Myxomatosis”, o di farli viaggiare con “Everything In Its Right Place”.
Dispiace soltanto, nonostante la magnificenza della scenografia, che una musica così profonda, così intima, così poco magniloquente debba essere ascoltata in una situazione che può risultare dispersiva e poco adatta alla giusta concentrazione (la molto più piccola piazza Santa Croce a Firenze, dove ho avuto la fortuna di vederli nel 2000, era molto più indicata in questo senso). Detto questo, concerti di questo livello scenico, musicale ed emotivo oggi semplicemente nessuno è in grado di farli. Speriamo di non dover aspettare per altri 17 anni.
La scaletta (Setlist)