Firenze, Obihall, 24 ottobre 2016
È davvero raro uscire da un concerto con addosso una tale sensazione di magnifica perfezione, scavando nella mente alla vana ricerca di qualcosa che non sia andato del tutto nel modo giusto. Ma PJ Harvey e la sua band stellare vanno oltre qualsiasi aspettativa e riescono nell’impresa di portare il pubblico di Firenze in una dimensione parallela, dove la voce non si affatica mai, il suono è sempre perfetto, l’intensità dell’esibizione non cala neanche per un attimo, la scaletta non ha un brano più debole di altri, le canzoni e gli arrangiamenti funzionano a meraviglia.
Lo show dell’Obihall, splendido teatro moderno in riva all’Arno, è parte del tour di supporto a “The Hope Six Demolition Project”, nono album pubblicato ad aprile dall’artista britannica e parte di un progetto più ampio e ambizioso che comprende le fotografie di Seamus Murphy e un libro di poesie intitolato “The Hollow of the Hand”. Il tutto è frutto dei viaggi che Polly Jean ha intrapreso proprio con Murphy in Kosovo e in Afghanistan, due paesi devastati dalle guerre, oltre che a Washington DC, dove molte delle decisioni riguardanti quelle guerre furono prese: e proprio nella capitale federale americana si trovano i nuclei abitativi del progetto Hope VI, costruiti in sostituzione dei preesistenti complessi di case popolari allo scopo di migliorare la qualità della vita in quei quartieri. Il disco di PJ Harvey racconta una realtà diversa, in cui il progetto non ha portato i miglioramenti sperati, ma al contrario ha espulso i residenti più poveri come in una sorta di pulizia sociale, un disastro non a caso accostato ai disastri provocati dalla guerra in Kosovo e in Afghanistan. È un disco dall’atmosfera unica, che dietro la semplicità delle melodie e il minimalismo degli arrangiamenti nasconde un mondo di sensazioni e di esperienze, appena tratteggiate in brani brevi fatti di poche ma vivide immagini: undici canzoni che non si levano dalla testa né dal lettore, registrati in una installazione intitolata “Recording in Progress”, allestita a inizio anno alla Somerset House di Londra, in cui il processo di realizzazione guidato da Flood e da John Parish avveniva di fronte ad un pubblico che poteva assistervi in spezzoni di 45 minuti.
Per fortuna del suo pubblico l’artista inglese si fa accompagnare in tour dalla straordinaria band che ha lavorato anche al disco in studio, unica donna tra nove uomini che formano un ensemble di livello eccelso: ad alternarsi tra basso, chitarre e tastiere varie ci sono John Parish, lo storico alter ego musicale di PJ, e Mick Harvey, oltre trentacinque anni al fianco di Nick Cave fra The Boys Next Door, The Birthday Party e The Bad Seeds; alla chitarra c’è Alain Johannes, tra le altre cose uomo ombra di Josh Homme dietro le quinte dei Queens Of The Stone Age; ci sono gli eccezionali polistrumentisti Terry Edwards (principalmente al sax) e James Johnston (si divide tra tastiere e violino) dei Gallon Drunk, e i due batteristi Jean-Marc Butty e Kendrik Rowe; e ci sono anche due grandi musicisti di casa nostra, Enrico Gabrielli (fiati e tastiere dei Calibro 35 ed ex-Afterhours) e Alessandro “Asso” Stefana (chitarrista dei Guano Padano, ha collaborato con Vinicio Capossela, Nada, Pierpaolo Capovilla, Marco Parente). La padrona di casa, grandiosa polistrumentista abituata a imbracciare diversi strumenti in studio e in concerto (chitarra in primis), stavolta si limita a cantare e suonare il sassofono, dedicandosi per il resto a calamitare tutti gli sguardi del pubblico con la sua carismatica presenza scenica. Al di là dei nomi sicuramente altisonanti a colpire è il carattere sonoro complessivo del gruppo, ridotto all’osso con un approccio quasi folk ma curato nel minimo dettaglio, con echi di blues, di gospel, di spiritual, e della musica delle marching band americane: le chitarre ci sono, ma ci sono anche fiati e tastiere e i due batteristi spesso suonano in piedi e dividendosi i vari pezzi del kit, aggiungendo all’efficacia e al gusto della soluzione anche un effetto scenico notevole. E soprattutto tutti i membri della band si occupano dei cori: proprio l’uso del contrasto tra la splendida voce della leader e le risposte di un coro di nove uomini è uno dei punti di forza più evidenti della musica recente di PJ Harvey, sia come sua intrinseca peculiarità sonora che per la potenza che trasmette nel contesto live.
La band entra sul palco marciando in un crescendo di rullanti e sassofoni (e svetta il magnifico timbro del clarinetto basso di Gabrielli) con cui si apre il solenne call and response di “Chain Of Keys”. Il suono è cristallino sin dal primo istante e lo sarà per tutta la durata dello show, la scenografia è un semplice muro grigio, quasi squallido, posto sullo sfondo, e senza dire una parola al pubblico PJ e la band suoneranno per oltre un’ora e mezza di pura classe e di forza enorme. Dalla scaletta sono esclusi solo due brani dell’album più recente, e dunque si prosegue muovendosi dai potenti stop and go di “The Ministry of Defence” al rock quasi classico e solo apparentemente allegro di “The Community of Hope”, dall’andamento scandito e sussurrato di “The Orange Monkey” a quello quasi shuffle di “A Line in the Sand”.
Concettualmente affine a “The Hope Six Demolition Project” è il suo predecessore “Let England Shake”, uscito nel 2011 e osannato come uno dei migliori album di una discografia che non conosce cali: è un intenso e decadente ritratto della nazione inglese e della sua storia bellica e imperiale. Qui dunque gli scenari di guerra sono lontani nel tempo e di conseguenza la musica si fa meno cruda e più eterea, malinconica. Ne vengono pescati quattro brani: la title-track, che la Harvey canta con una voce sottile, quasi stridula, accompagnata da un ostinato andante ma zoppicante del piano; “The Words That Maketh Murder”, con i meravigliosi battimani e i cori di tutta la band; “The Glorious Land”, cantata con voce prima delicata e poi potente e con quel sample dello squillo di tromba così fuori posto eppure così appropriato; “Written on the Forehead”, dall’atmosfera nostalgica e impreziosita dal bellissimo sample di “Blood and Fire” del grande produttore reggae Niney the Observer.
Un ulteriore salto nel passato è compiuto con le spettrali e inquietanti “To Talk To You” e “The Devil”, estratte da “White Chalk”, dove la voce di Polly raggiunge registri acutissimi e picchi di straordinaria espressività. Nel mezzo la struggente “Dollar, Dollar”, traccia conclusiva dell’ultimo album immersa nelle voci che affollano la città e chiusa dallo splendido assolo di sax di Terry Edwards. E ancora da “The Hope Six Demolition Project” provengono “The Wheel”, un grande brano rock trascinato dai battimani della band e in cui anche PJ si unisce con il suo sax alla sezione fiati, e “The Ministry of Social Affairs” un blues che prende le mosse dal sample di “That’s What They Want” di Jerry McCain e si chiude con un nervoso e rumoroso assolo ancora di Terry Edwards, stavolta su un sax bianco di plastica.
PJ Harvey sembra non aver versato una goccia di sudore, né i suoi capelli (o le piume che li adornano) si sono spostati o scompigliati di molto, né la sua voce ha sofferto la minima incertezza, quasi fosse un’aliena o una bella strega di Biancaneve. E non fa una piega neanche quando improvvisamente catapulta il palco e la platea dell’Obihall in quegli anni ‘90 in cui era l’indiscussa dea dell’alternative rock. La furia punk di “50ft Queenie”, l’incedere decadente, stralunato e sensuale di “Down By The Water” e il cantato strascinato dell’ossessiva “To Bring You My Love” (la prima da “Rid Of Me”, le altre due da “To Bring You My Love”) rimandano a un’artista completamente diversa da quella che ci troviamo davanti oggi, ma che a ben pensarci rivela una coerente continuità estetica di fondo oltre che un’ispirazione di livello costantemente altissimo.
Per la chiusura si torna ancora a “The Hope Six Demolition Project” con “River Anacostia” (dal nome di uno dei quartieri più poveri di Washington, una dalle più importanti fonti di ispirazione dell’album), un brano dalle fumose e dimesse atmosfere spiritual, che si chiude con tutta la band a cantare in coro in prima fila e sfumando piano piano. L’obbligatorio bis attinge ancora dagli anni ‘90: una sinistra “Working For The Man” ancora proveniente da “To Bring You My Love” e la scurissima e sospesa title-track di “Is This Desire?”, accolta con un’ovazione dal pubblico.
Quando si riaccendono le luci dell’Obihall ci si ritrova avvolti nella soddisfazione di aver visto un concerto strepitoso, anche grazie a una location superlativa per suono e fruibilità dello spettacolo e a un pubblico silenziosamente rapito e rispettoso. Ed è anche la soddisfazione di aver assistito all’esibizione di un’artista che avvicinandosi al mezzo secolo di età e al quarto di secolo di carriera (il primo album “Dry” è del 1992) è in una forma vocale (e fisica) strepitosa. Ma soprattutto è sempre più ricca di idee, di cose da dire, di voglia di affrontare argomenti duri, reali e contemporanei, mettendoli in musica con una band che già da sola vale una grossa parte del biglietto.
Live report di Andrea Carletti
Foto di PCauberghs e scannerFM da Flickr in Creative Commons.