Ferrara, Piazza Castello, 6 giugno 2010
Per parlare dei Pixies, non posso non partire dal concerto dei Pavement, tenutosi a Roma (e anche a Bologna il giorno dopo, ma io ero a quello di Roma) appena 2 settimane prima dell’arrivo dei Folletti a Ferrara. Si tratta infatti di 2 band simili per genere, per attitudine e per periodo. Inoltre entrambe le band sono in giro senza nuovi album da proporre, ma per semplici reunion tour, con l’unica differenza che quello dei Pavement è da poco iniziato, mentre quello dei Pixies dura ormai da parecchio tempo. Quello che però separa queste 2 band, apparentemente sorelle, è un particolare fondamentale: il primo album dei Pavement (Slanted and Enchanted) uscì nel 1992, l’anno successivo all’ultimo album dei Pixies (Trompe le monde, 1991). Tradotto: quando i Pavement sono usciti, i Pixies avevano già scritto una pagina epocale della storia del Rock. Gli stessi Pavement sono state una delle band influenzate dai 4 di Boston, insieme a tanti altri gruppi chiave della scena degli anni ’90 (vedi Nirvana, Smashing Pumpkins, Radiohead, Blur, tanto per citare per par condicio 2 “band a caso” americane e 2 “band a caso” inglesi, ma la lista è lunghissima).
Proseguendo per sillogismi e considerando il peso della storia, prima di assistere a questi due concerti pensavo di stare per assistere a due eventi di differente importanza: chi l’indie-lo-fi-noise-pop-echiamatelocomevoletevoi l’aveva creato, i Pixies, e chi invece l’aveva “semplicemente” portato avanti, i Pavement. A Roma c’era un piccolo palazzetto per un quarto vuoto, a Ferrara c’era una grande piazza sold out.
Eppure l’apporto aristotelico sul palco è venuto a mancare. Si è capovolto il risultato di un’equazione che nella musica difficilmente funziona: solo i Pavement sono riusciti nell’impresa di ricreare quella malinconica magia figlia dell’imperfezione del Lo-fi. Ai Pixies questo non è riuscito, nonostante lo spettacolo messo in scena dalle loro canzoni. È questo il punto principale da spiegare, anche se difficile farlo a parole perché si parla di sensazioni, sentimenti, emozioni. Mentre i Pavement sono riusciti a farci viaggiare nel tempo, questo ai Pixies non è riuscito. Solo le splendide canzoni della band di Boston hanno rivissuto sotto al Castello di Ferrara, ma non i loro autori-esecutori. I 4 folletti sul palco sembravano dei lontani parenti di quelli autori di una rivoluzione musicale alla fine degli ‘80. Quello che più di tutto ci aveva lasciato estasiati e commossi dei Pavement era l’aver trasudato l’imperfezione della loro musica durante il concerto. Qui è mancato proprio questo. È mancata da parte del gruppo la voglia di lasciarsi andare e di emozionarsi. È emerso solo il lato più professionale dei reunion tour: una band da troppo tempo satura, che non ha più niente da dire. È emersa la cruda realtà: i Pixies non fanno un disco da 19 anni e dal 2004 sono di nuovo in giro solo per soldi. Peccato. Ma visto che il mio è solo un opinabile punto di vista, a compimento di queste righe di pippe mentali e sillogismi vi lascio con una domanda, che mi si è arroccata nella testa a fine concerto e alla quale vorrei da voi una sincera risposta, ringraziando anticipatamente chi accoglierà la sfida. La domanda è questa: basta una perfetta esecuzione dei propri capolavori per rendere un concerto memorabile?
Ora finalmente possiamo parlare del concerto e passare a un meno epico e nostalgico tempo presente. Lo scenario suggestivo e la serata calda, infuocata da un pubblico carichissimo, sono pronti per un evento memorabile. L’inizio è esplosivo, segnato dalle prime 2 tracce di Bossanova: Cecilia Ann, cavalcata di surf strumentale degli anni ’60, scritta dai Surftones e resa quasi fantasy dai folletti e Rock Music, in cui Francis ha bisogno di un mega delay sulla voce per inseguire le urla che lanciava 20 anni fa. Segue una prima metà di concerto letale, soprattutto per chi non può fare a meno di buttarsi nella mischia in un folle pogo sui ciottoli medievali di Piazza Castello. Nell’ordine: Bone machine (bomba a mano), Monkey gone to heaven (in cui la voce di Kim nel ritornello la fa da padrona), Gouge away (capolavoro assoluto…), Hey, Velouria, Dig for fire (splendida, dà il tempo al pubblico per rifiatare un po’), Allison, Debaser (uno di quei pezzi fondamentali della storia del Rock, in cui c’è tutto quello che i Pixies hanno dato alla musica: riff di basso semplice ma incantevole, voci mischiate solo apparentemente senza un senso, spettacolare dinamica strofa-ritornello, chitarrina acida e sognante), Planet of sound, Alec Eiffel (geniale!), Caribou. E proprio qui sale sul palco uno della sicurezza per dire al pubblico di fare un passo indietro: le transenne non reggono più l’incontrollata foga degli accorsi. La band abbandona il palco e passano almeno 5 minuti prima che il concerto riprenda. Si ricomincia con Winterlong, spettacolare cover di Neil Young ottima per calmare il pubblico, nella quale si può apprezzare uno splendido duetto vocale Francis-Deal. Quindi si riprende a fare sul serio, con una seconda metà di concerto tirata quanto la prima. Poche parole al pubblico e l’unica che ci prova addirittura in italiano, con alterni risultati, è Kim Deal, sempre sorridente, la sola che sembra crederci ancora, insieme a David Lovering; il batterista quasi cinquantenne sfoggia un’abbastanza seria barba grigia e non perde un colpo, neanche quando deve riprendere al volo la sua bacchetta lanciata a Santiago per noiseggiare sull’assolo di Vamos. Francis invece mantiene per tutto il tempo la sua aria tra il superbo e l’annoiato. Ma non importa, lo ringraziamo comunque per quello che ha scritto. Santiago sembra lì per caso, tra il borghese e l’intimidito. Comunque i 4 di Boston infilano nell’ordine: River Euphrates, Cactus, Is she weird?, Break my body, The sad punk, Head on (bellissima cover dei Jesus and Mary Chain, presente su Trompe le monde), U mass, Wave of mutilation (vero e proprio inno), Tame, Isla de encanta, Broken face, Nimrod’s son, Vamos, Gigantic (pezzo tra i più belli di sempre, in cui si può godere totalmente della voce di Kim, timida e sensuale). I 4 salutano e vanno via. C’è tempo per 2 bis immancabili: Where is my mind? e Here comes your man. Basta questa scaletta a rendere il concerto spettacolare per qualità, per intensità e per storia, ma lo si deve semplicemente ai pezzi, che ormai appartengono alla Musica, e non alla band che stava sul palco, che è mancata totalmente. Questo deve essere chiaro. Aspetto risposte.
1- Cecilia Ann
2- Rock music
3- Bone Machine
4- Monkey gone to heaven
5- Gouge away
6- Hey
7- Velouria
8- Dig for fire
9- Allison
10- Debaser
11- Planet of sound
12- Alec Eiffel
13- Caribou
14- Winterlong
15- River Euphrates
16- Cactus
17- Is she weird?
18- Break my body
19- The sad punk
20- Head on
21- U mass
22- Wave of mutilation
23- Tame
24- Isla de encanta
25- Broken face
26- Nimrod’s son
27- Vamos
28- Gigantic
Bis:
29- Where is my mind?
30- Here comes your man
Recensione di Alessandro Lepre
foto di aurelien