Roma, Cavea Auditorium, 9 luglio 2015
Arriva correndo, quasi prendendo la rincorsa, con una maglietta viola alla faccia della superstizione che lascia intravedere un fisico ancora tonico ed in ottima forma, la famosa frangetta ormai totalmente grigia, un rapido saluto imbracciando la telecaster e via per due ore di musica energica e di classe.
Classe, ovviamente stile, eleganza, energia e buongusto, ecco i sostantivi che per tutta la durata del concerto si ripresentano alla mente nell’ascolto dei brani. Lontano da qualsiasi retorica da vecchio rocker, da qualsiasi operazione nostalgia e pose gigionesche, Paul Weller arriva dopo Gardone e Vienna per presentare il nuovo album Saturns Pattern, niente di memorabile ma ancora tanta roba da sentire, ma la scaletta lascia spazio a tutta l’ampia discografia della sua quasi quarantennale ed invidiabile carriera. Come già detto, in forma smagliante, scarpe bicolori da vecchio dandy, adrenalina da vendere, una vena fine sixties inizio seventies che non ti aspetti, meno spazio di quanto auspicabile al suo lato soul-r’n’b, echi addirittura glam alla T-Rex (Long Time, White Sky), omaggi nemmeno troppo velati ai Kinks (I’m Where I Should Be) la solare ballad The Attic a precedere la title track del nuovo CD, con la quale si trasferisce al piano elettrico per un brano piacevole ed incisivo, degno della sua produzione migliore. Dopo pochi brani arriva il gioiellino lennoniano di Porcelaine Gods proprio mentre una distinta signora, insospettabile fan della prima ora, elude la sorveglianza e con nonchalance si inerpica sul palco per baciare il Modfather, che non si scompone più di tanto. Arriva poi il turno della splendida You Do Something to Me ed è a questo punto che è evidente che, per quanto condivisibile, la scelta di un repertorio più rock che soul ci impedisce di assistere al concerto perfetto, oltre ad alcune smagliature nell’assolo del batterista che rischiano di compromettere il giudizio complessivo più che positivo della serata. Quando però arriva Start! dei vecchi Jam i pochi dubbi svaniscono ed il pubblico in platea si precipita sotto il palco per ballare. Il corposo bis si completa con due brani che scatenano un brivido nella schiena nonostante il caldo africano ed una lacrimuccia affiora all’angolo dell’occhio di molti dei presenti: la doppietta My Ever Changing Moods dei mai dimenticati Style Council e la scossa beat di Town Called Malice di nuovo dai Jam stende il pubblico in estasi, con la signora di cui sopra che tenta con minore fortuna di raggiungere nuovamente l’ambita preda sul palco. Un artista raro ed inimitabile, un vecchio amico ritrovato, un’emozione indimenticabile. Bentornato Paul (magari un’altra volta con un altro batterista…)!
Recensione di Fabrizio Forno