Roma, Villa Ada, 31 luglio 2009
La legge dei grandi numeri mi avrebbe dovuto mettere in guardia. Era da almeno tre anni che ogni concerto della rassegna Roma incontra il mondo si rivelava una piacevole scoperta, una gradita conferma, un vero evento, senza un passo falso, men che meno una delusione o una mezza fregatura. Nessun luogo dell’Estate Romana riesce a darmi lo stesso piacevole conforto e la magia della penisola nel verde del parco romano crea un’atmosfera davvero unica che accomuna pubblico ed artisti in una congiunzione astrale e musicale indimenticabile.
L’eccezione che conferma la regola arriva però quando meno te l’aspetti: per quello che personalmente rappresentava l’ultimo concerto prima delle vacanze le aspettative erano tante; conosco Nitin Sawhney da dieci anni esatti, dalla tappa romana di una ormai leggendaria rassegna al Brancaleone, intitolata Interplanetary Sounds, una delle prime occasioni per il pubblico romano di entrare in contatto diretto con uno dei fenomeni musicali d’oltremanica di fine novecento, rappresentante di quell’Asian Underground che all’epoca impazzava nei club del Regno Unito, con le serate Anokha di Talvin Singh, gli ipnotici State Of Bengal ed i ritmi irresistibili degli Asian Dub Foundation. Era l’epoca di Beyond Skin, un album davvero prezioso, inciso per la Outcaste, label molto attenta agli intrecci musicali della multietnia britannica e non a caso poco tempo dopo madrina dello scintillante esordio, in altri ambiti musicali altrettanto contaminati, dei grandi Oi Va Voi. Quel concerto fu una vera rivelazione, col suo magico equilibrio tra tradizione musicale indiana, con il sitar, le tabla, l’armonium e le danze tipiche del subcontinente indiano mescolate coi ritmi jungle e trip-hop. Di li a poco l’interesse occidentale per questo genere portò a leggendarie collaborazioni, come quella tra i Massive Attack ed il compianto cantante di sufi Nusrat Fateh Ali Kahn, o quella dello stesso corpulento cantante pakistano col grande chitarrista canadese Michael Brook, tutte per l’etichetta Real World di Peter Gabriel.
Anche nelle successive occasioni in cui questo grande polistrumentista e compositore angloindiano si è presentato sui palcoscenici italiani si era avuta la conferma di trovarsi di fronte ad un innovatore, ad un abile manipolatore di suoni che riusciva a non sbagliare un colpo, con grandi album, come Philtre e Prophesy ed altrettanto interessanti proposte dal vivo.
Tutta questa lunga premessa introduttiva si è resa necessaria per evidenziare la profonda delusione provata nel corso di questa serata di fine luglio 2009: del grande artista ammirato ed amato in questi dieci anni non è rimasto che un pallido ricordo. Il repertorio di questa sera è parso poco incisivo e monocorde; la ricchezza di sonorità e di calore espressivo è svanita, si è sentita poca musica, espressa da una band ridotta ai minimi termini, in cui Sawhney ha insistito troppo nell’uso della chitarra classica, esagerando con atmosfere latineggianti, tra flamenco e nu-fado che hanno lasciato perplesso più di uno spettatore. Anche i brani più riusciti, come Footsteps e la celebre Homelands sono risultati insipidi e deludenti come un soufflè senza sapore che si sgonfia appena sfornato. Eppure il recente album dall’accattivante titolo di London Undersound sembrava foriero di uno spettacolo degno della fama e del rispetto conquistato in tutti questi anni di grande musica.
Sinceramente non condivido la scelta di trascurare le tastiere per quasi tutto il concerto, basarsi sulle voci poco incisive di Lucy e Tina, apparse un po’ spaesate e fuori luogo, e lasciare che le sonorità più suggestive debbano arrivare da voci maschili pre-registrate e flauti campionati. La scaletta pesca quasi a casaccio tra generi musicali che sembrano non appartenere alle corde di questo artista, quasi a voler limitare se non addirittura rinnegare quel sapiente mix di oriente e club-culture di cui è stato un celebrato portabandiera, col chiaro intento di rincorrere il mercato pop o al massimo lounge.
A completare il bilancio quasi fallimentare della serata, lo show è durato 80 minuti scarsi (ma forse è stato meglio così) in cui tra i pochi momenti emozionanti faccio fatica a ricordare un duetto tra Sawhney ed il percussionista Aref Durvesh, che si è anche reso protagonista di un assolo alle tablas degno di nota, ma sicuramente non eccezionale. Un’occasione mancata, un inaspettato passo falso: provaci ancora, Nitin.
Recensione e foto di Fabrizio
[…] abili. Lo spettacolo nel suo insieme è buono, così come lo è la musica mistica e ossessiva di Nitin Sawhney, ma non è propriamente all’avanguardia. Se però l’impianto della coreografia corale […]
[…] esplodeva il fenomeno dell’Asian Underground che aveva nel già citato Talvin Singh ed in Nitin Sawhney i principali esponenti musicali. Troppo distanti tra loro i ritmi urbani venati di techno dei TGU […]
[…] breve e che dà il meglio di sé nel primo atto, si avvale delle musiche originali del compositore Nitin Sawhney e di altre tradizionali giapponesi suonate e cantate da Tsubasa Hori, Park Woo Jae e Olga […]