Roma, Init, 10 maggio 2016
Per l’ascoltatore attuale l’attesa tra una pubblicazione e l’altra di una band ha raggiunto ormai una dilatazione temporale talmente estesa da non essere quasi più avvertibile: pensiamo ai Portishead (l’ultimo album Third, uscito ormai otto anni fa, vide la luce ben nove anni dopo il precedente), o ovviamente ai Tool, che proprio quest’anno “festeggiano” il decennale di 10.000 Days. Ci sorprendiamo invece nel riflettere come in passato le uscite discografiche di un artista fossero fittissime, con cadenza pressochè annuale: ricordare che Peter Gabriel abbia militato nei Genesis solo cinque anni, o Damo Suzuki appena quattro nei Can ci meraviglia ancora adesso, rendendoci increduli di fronte all’enorme quantità di musica nata in un’arco di tempo così ridotto. Ma fortunatamente anche ai giorni nostri l’eccezione alla regola esiste, e prende il nome di Motorpsycho.
Tra album in studio, ep e compilation la discografia dei norvegesi non ha praticamente mai avuto sosta, con impressionanti picchi artistici (pensiamo ai cinque album pubblicati tra il 1993 e il 1998 di cui ben due doppi) e qualche inevitabile segno di stanchezza (la produzione dei primi anni duemila). Un canzoniere vastissimo, che nelle ultime prove in studio sembra essersi spostato ulteriormente verso un personalissimo hard-prog dove il mellotron assume un ruolo fondamentale; in particolar modo nell’ultimo bellissimo Here Be Monsters è proprio questo strumento, icona massima del progressive, a farla da padrone, portando la band in nostalgici territori seventies assai più convincenti rispetto a quelli degli spaesati Opeth o del troppo prolifico e pedante Steven Wilson.
Il fedele Init apre le sue porte più presto del solito e il pubblico prende posto nella sala già intorno alle 21, ben conscio della lunghezza media di un concerto dei norvegesi (basti pensare al live al Circolo degli artisti nel 2013 dove eseguirono come bis un album intero, Blissard). Non c’è quindi posto e tempo per una band di apertura, e infatti il trio sale sul palco alle 21.30 precise, circondata dai muri degli amplificatori e da ben due mellotron digitali, sebbene a svettare più di tutto sia la bianca batteria a doppia cassa di Kenneth Kapstad posta al centro.
L’apertura è affidata a Big Black Dog, il lungo brano di venti minuti che chiude l’ultimo album, che con la sua struttura stratificata riesce a immergere immediatamente l’ascoltatore nell’universo sonoro dei Motorpsycho: per molti versi proprio questo brano si rivelerà essere il migliore della serata, con una soffusa e delicata partenza a due chitarre (di cui una baritona) che lentamente approda a un ipnotico riff hard-psych arricchito dalle tastiere, fino a riapprodare nei sognanti territori iniziali. Tutti i brani tratti da Here Be Monsters, come la successiva Lacuna/Sunrise o la medley Running With Scissors-I.M.S.-Spin, Spin, Spin (quest’ultima eccezionale rilettura dello straordinario cantante soul Terry Callier) sono quelli che tengono più alta l’attenzione e al loro interno tutto appare funzionare alla perfezione.
A convincere meno sono invece i numerosi momenti in cui la band si lancia in infinite improvvisazioni, certamente ben eseguite, ma a tratti davvero estenuanti. Per quanto intrisi di un profondo e sincero spirito sabbathiano, gli infiniti soli del bravissimo chitarrista Hans Magnus Ryan su brani quali Flick of the Wrist, Hell Part 1-3 o The Bomb-Proof Roll and Beyond (for Arnie Hassle) provocano più di uno sbadiglio, e anche la sessione ritmica non sembra sostenerlo più di tanto, penalizzata a onor del vero da un’acustica non sempre all’altezza.
Ma fortunatamente i ripescaggi più distanti dai suoni impro-hard non tardano ad arrivare, ed ecco così giungere la doppietta psych-grunge-folk Wearing Yr Smell–Watersound tratta da Timothy’s Monster (già anticipato dal classico Feel), seguita da quella ancora più efficace di Demon Box, con un’esecuzione furiosa della devastante Feedtime. I migliori anni Novanta risuonano tra le mura dell’Init, e tutto il talento del bassista-cantante Bent Sæther in questo contesto emerge con ulteriore forza. E sebbene ormai si siano quasi sfiorate le due ore e mezza di esecuzione, la band concede come unico bis un lunghissimo e affascinante brano inedito tratto dalle ultime sessioni di registrazione, dove Hans Magnus Ryan trascura praticamente per la prima volta la sua chitarra in favore delle tastiere.
La stanchezza dopo poco meno di tre ore ha raggiunto anche il fan più intransigente, ma la soddisfazione e l’appagamento appare più che evidente nei volti della maggior parte delle persone, a dimostrazione di come in sede live i Motorpsycho possano davvero contare su pochi avversari a livello mondiale. L’unico pericolo che a volte sembra tangerli è forse proprio quello di non avere un senso del limite più controllato, a discapito di una eccessiva volontà di dilatare e espandare i lori brani. Il loro non volersi risparmiare in alcun modo per il proprio pubblico può a volte trasformarsi quindi in un’arma a doppio taglio, ma probabilmente è proprio questa una delle caratteristiche che rendono ancora più fondamentale una band instancabile e inarrestabile come i Motorpsycho.
Recensione di Federico Forleo
Big Black Dog
Sleepwalking
Lacuna/Sunrise
Flick of the Wrist
Feel
Hell, Part 1-3
Running With Scissors
I.M.S.
Spin, Spin, Spin (Terry Callier cover)
Sleepwalking Again
August (Love cover)
S.T.G.
The Bomb-Proof Roll and Beyond (for Arnie Hassle)
Wearing Yr Smell
Watersound
Junior
Feedtime
Here Be Monsters