Roma, Circolo degli artisti, 25 novembre 2013
Mai come in quest’ultimi anni la scena musicale è stata attraversata da un’incredibile proliferazione di reunion da parte delle band più disparate, il più delle volte senza alcuna logica o reale motivazione artistica. Tralasciando il mondo mainstream, in ambito alternative-indipendente è ormai davvero impossibile tenere il conto: basti pensare al palco capitolino del Circolo degli artisti che negli anni recenti è stato solcato da band eccezionali quali Slint, Jesus Lizard, Swans, Sleep (ma non dimentichiamoci anche, seppure in altri luoghi, dei Godspeed You! Black Emperor, dei Television e dei My Bloody Valentine). E a ben vedere dietro a questi ritorni sulle scene troviamo sempre lo zampino dell’All Tomorrow’s Parties, probabilmente il più importante festival musicale degli anni 2000, pronto ad affidare anno dopo anno la propria direzione artistica nelle mani delle band stesse: il 2013 sarà purtroppo l’ultimo della storia, e per chiudere in bellezza gli organizzatori hanno deciso di chiamare quali curatori i Loop, facendo riformare la band britannica a 23 anni di distanza dalla pubblicazione del loro terzo e ultimo album, A Gilded Eternity. Chi avrà la fortuna di partecipare a tale evento li vedrà esibirsi accanto ad artisti del calibro di Mogwai, Shellac, Om e Michael Rother.
Ovvio quindi che la curiosità di assistere alla performance romana sia tanta, anche tra chi non conosca approfonditamente la carriera della band inglese, considerata a buon diritto quale una delle realtà più importanti della neo-psichedelia e dello shoegaze inglese degli anni 80: ascoltando i tre dischi realizzati nell’arco di appena quattro anni, sono sì evidenti gli accostamenti sonori con Jesus and Mary Chain, My Bloody Valentine e (soprattutto) Spacemen 3, ma il tutto appare ancora più selvaggio, etereo e aggressivo, facendo emergere prepotentemente influenze kraut (i mai troppo osannati Can) e il garage rock di Detroit (MC5 in particolare).
Proprio il primo brano del live, Soundhead, che introduce i quattro musicisti sul palco poco dopo le 23 (non siamo purtroppo riusciti ad assistere all’esibizione dei romani Last Møvement), non può che richiamare alla mente l’epica title track di Kick Out The Jams, immergendo i due semplici accordi che compongono la canzone in un imponente e denso strato di fuzz e distorsioni, accompagnando il tutto da un cantato molto rilassato e disteso. L’impianto del Circolo risponde egregiamente, ma lo stesso non si può dire della band che appare alquanto poco coesa e compatta, a causa soprattutto del drumming impreciso del batterista John Wills: imprecisioni che risaltano con grande evidenza soprattutto durante l’esecuzione di The Neil We Burn, caratterizzata da un continuo utilizzo di rullate che non sembrano rientrare perfettamente a tempo. Bisogna certamente tenere conto del fatto che la data romana è a tutti gli effetti la seconda esibizione dei Loop dopo così tanti anni di distanza dal palcoscenico (la prima è avvenuta esattamente una settimana prima nella natia Londra), ma indubbiamente durante i primi quattro brani molti dubbi vengono a insinuarsi nelle nostre menti.
Ma fortunatamente il tutto viene spazzato via da una formidabile versione di Fever Knife, forse il brano dove emergono più prepotentemente le influenze kraut, che con il suo incedere ipnotico e monocorde permette il vero inizio del viaggio sonoro cosmico che da qui in avanti non avrà più fine. John Wills sembra davvero essersi trasformato in un altro musicista, e ogni colpo di bacchetta è finalmente scandito con precisione, risaltando soprattutto durante Blood, caratterizzata dall’utilizzo dell’eco sul rullante. Le chitarre del frontman Robert Hampson e di Scott Dowson tracciano paesaggi ambientali devastanti e onirici attraverso l’utilizzo di reverberi e distorsioni, in particolar modo in brani come Vapour (quasi una versione moderna di Set The Controls For The Heart Of The Sun dei Pink Floyd) e Afterglow, senza ombra di dubbio il miglior pezzo dell’intero set (i Neurosis di Times of Grace non sembrano così distanti). Lo stesso dicasi del bassista John Wills, il cui giro di basso nella conclusiva Burning World ricorda incredibilmente quelli dei primissimi Killing Joke. C’è infine tempo per un ultimo bis, che porta il concerto alla chiusura poco dopo la mezzanotte.
Il lungo arco di tempo trascorso dalle ultime esibizioni dalla band è quindi indubbiamente emerso in alcuni passaggi, ma ciò non ha minimamente intaccato la potenza di un live capace di coinvolgere e ipnotizzare l’ascoltatore come difficilmente capita al giorno d’oggi. La natura dei riff sui quali sono costruite le composizioni dei Loop appare forse un po’ troppo ancorata al periodo storico in cui la band ha fatto la sua comparsa (pensiamo al contrario a una band moderna come quella dei Dead Skeletons, capace di intraprendere percorsi sonori assai simili, ma con uno spirito molto più attuale e contemporaneo), ma ciò non li priva minimamente del loro fascino, rivelandosi ancora capaci di coniugare lo space-rock e il garage-rock in maniera perfetta e convincente, seppure forse un po’ nostalgica. Ma d’altronde in un’epoca di reunion come questa anche la nostalgia ha la sua importanza.
Recensione di Federico Forleo