Roma, Init, 24 novembre 2015
In un novembre romano finalmente ricco di eventi musicali importanti non si poteva rinunciare al concerto dei Lightning Bolt, duo americano di Providence attivo dalla seconda metà degli anni ’90 e alfiere di una proposta musicale unica ed estrema. Reduce dalla pubblicazione del settimo album, l’ottimo “Fantasy Empire”, uscito a marzo di quest’anno su Thrill Jockey (a tre anni di distanza dal precedente “Oblivion Hunter”), la band non passava dalla nostra città dal lontano 2004, quando fu protagonista assieme ai padroni di casa Zu, al sassofonista svedese Mats Gustafsson, e al duo americano Black Forest/Black Sea di un indimenticabile festival nella spettacolare cornice dell’Acquario Romano (oggi sede della Casa dell’Architettura). La performance dei Lightning Bolt, che concluse il festival, fu devastante, esaltata anche dall’assenza del palco che permetteva alla band di suonare in mezzo al pubblico (come in verità fa molto spesso).
Entrando all’Init ci accorgiamo che il piano per la serata è quello più tradizionale di suonare sul palco, completamente occupato dagli enormi amplificatori della band. Per questo motivo due dei tre gruppi di apertura della serata saranno costretti a suonare in un angolo della sala opposto al palco, un po’ sacrificati dal punto di vista del volume e dello spazio a disposizione, ma ricompensati in termini di contatto diretto e condivisione con il loro pubblico, come proprio i Lightning Bolt insegnano.
Aprono le danze i MalClango, trio romano attivo da meno di un anno e ancora a secco di pubblicazioni (il disco è in arrivo), ma che porta sulle spalle l’esperienza dei suoi componenti in band come Juggernaut, Inferno Sci-Fi Grind’n’Roll e Donkey Breeder. La formazione è atipica, due bassi e batteria, il suono è scarno e l’impatto già notevole è rafforzato dalla presenza scenica dei tre, che indossano delle splendide maschere da gorilla: la surreale scena che si para di fronte al già numeroso pubblico dell’Init è dunque quella di tre scimmioni che essendo dotati di pollice opponibile possono divertirsi con incastri ritmici complessi, stop and go improvvisi e strane armonizzazioni. Il risultato è una sorta di math rock deforme, che ha studiato alla scuola Touch & Go (una delle etichette fondamentali del rock indipendente americano degli anni ’90), ma che sceglie di non prendersi troppo sul serio, stemperando la complessità e i suoni potenti e taglienti con melodie e pattern ritmici molto ben scritti e riconoscibili e per questo godibili. I cinque pezzi in scaletta volano via veloci, lasciando soddisfatto il pubblico e ponendo ottime premesse a tutta la serata.
È quindi la volta di un altro gruppo dalla line-up inusuale, i Surgical Beat Bros, progetto che nasce dall’incontro di due dei più attivi e interessanti musicisti dell’underground romano, ovvero Fabio “Reeks” Recchia (Nohaybandatrio e Germanotta Youth, fra gli altri) e Antonio Zitarelli (Neo e Mombu), rispettivamente tastiere e batteria, che in poco più di un anno hanno pubblicato un album eponimo e due split (con Uochi Toki e Bologna Violenta). Il fragoroso scontro tra i suoni industriali e futuristici di Reeks e i potenti groove di Zitarelli produce una musica inusitata, complessa ma travolgente. Gli incastri ossessivi ripetuti all’infinito e sempre in un compattissimo crescendo di tensione, i tempi dispari nascosti in ritmi spesso memorizzabili e persino accattivanti (i due hanno definito la loro stessa musica come “pop chirurgico”) e il dichiarato richiamo alla techno potrebbero far pensare ad un modo credibile di immaginare la dance del trentunesimo secolo, o quella di una forma di vita (più) intelligente che viene da un pianeta lontano.
In mezzo a tutti questi gruppi dalla formazione insolita l’unico act che fa uso della chitarra, lo strumento principe del rock e dei suoi derivati, appare quasi fuori posto: nel poco spazio lasciato sul palco dall’attrezzatura dei Lightning Bolt si sistemano Above The Tree & Drum Ensemble Du Beat. Above The Tree è il one-man project del marchigiano Marco Bernacchia, impegnato con chitarra e voce filtrati da effetti vari, e assieme ai due percussionisti del Drum Ensemble Du Beat, dopo aver pubblicato nel 2014 l’album “Cave Man”, ha accompagnato i Lightning Bolt nelle tre date italiane del tour. I tre si presentano sul palco con delle maschere da uccelli e si dedicano a suoni spaziali e dilatati e a ritmi ipnotici e ossessivi, dove sono chiari i riferimenti space e kraut. Al netto di un suono complessivo pieno e curato, e della voglia di trasportare l’Init in un’atmosfera viaggiante e psichedelica, la musica proposta sembra però troppo semplice e monotona, e scivola via priva di guizzi particolari dal punto di vista melodico come da quello ritmico, risultando probabilmente troppo fuori contesto rispetto al resto del programma della serata.
E arriva finalmente la portata principale della lauta offerta di questa serata all’Init: ha inizio l’assalto sonoro dei Lightning Bolt, ovvero il bassista Brian Gibson e il batterista e cantante Brian Chippendale. Il suono è enorme come gli amplificatori alle loro spalle, e le personalità dei due musicisti si esaltano a vicenda e si completano perfettamente: schivo e per nulla spettacolare Gibson (che è anche membro del team che ha creato il famosissimo videogame Guitar Hero), resta concentratissimo sul suo basso e sui suoi pedali e costituisce la componente melodica del gruppo, seppure sepolta dalle distorsioni e dagli effetti; tutto il contrario il funambolico Chippendale, batterista straordinario e folle cantante dal volto mascherato, pesta come se non ci fosse un domani (ma con una tecnica e un gusto da virtuoso) e urla nel suo microfono, una cornetta installata sulla sua maschera proprio in corrispondenza della bocca, effettando la voce con alcuni pedali che controlla il piede sinistro, l’unico arto che non usa per suonare la batteria. L’accoppiata è squassante.
La musica del duo è una pura espressione di follia e urgenza: frenesia, potenza, velocità, cambi di ritmo repentini, poco tempo per respirare, come si capisce subito dal brano che apre il concerto, “The Metal East”, che inaugura anche l’album “Fantasy Empire”. I pezzi in scaletta (molti dei quali sono ovviamente estratti da “Fantasy Empire”) si susseguono senza soluzione di continuità, alternando momenti di compattezza quasi hardcore e momenti di caos totale, improvvisazione e libertà noise. Il pubblico è travolto e sballottato dalla massa di suono di Gibson e dalla velocissima batteria di Chippendale, e come se l’informe e irrequieto gruppo di persone sotto il palco avesse bisogno di una valvola per sfogare la propria voglia di movimento ecco che sul brano suonato come bis, la cantilena da manicomio “Dracula Mountain” (da “Wonderful Rainbow”, del 2003), un nutrito numero di spettatori sale sul palco per vedere e sentire la band più da vicino (come a dire “se i Lightning Bolt non vogliono suonare in mezzo al pubblico, è il pubblico che vuole stare attorno ai Lightning Bolt”). Insomma, il concerto finisce in festa.
I Lightning Bolt hanno reso giustizia al ricordo che avevano lasciato ai romani con quel concerto di undici anni fa, e avrebbero potuto fare meglio solo suonando ancora una volta in mezzo al pubblico. Restano in ogni caso una band fondamentale per capire quante possibili sfaccettature possa avere la musica estrema e sperimentale degli anni Duemila, e uno dei live act più imperdibili in circolazione. Non fateveli sfuggire un’altra volta!
Live report di Andrea Carletti
Foto di Do512 da Flickr in Creative Commons.