Firenze, Ippodromo del Visarno, 14 giugno 2017
Tra musicofili incalliti, può succedere, nell’imminenza di un grande evento (o meglio di un grande concerto…) di avvertire il cosiddetto “braccino” di tennistica appartenenza, ovvero una sorta di ansia da prestazione che investe l’appassionato sulla possibilità che qualcuno o qualcosa rovini, magari anche parzialmente, la riuscita di ciò che spasmodicamente si è atteso per mesi. Sgombriamo il campo da ipotesi pagane: nessun dubbio sull’eccellenza dei musicisti in questione, ma sarà per il fatto di doversi ammassare all’interno di ippodromi dalle acustiche poco concilianti, vuoi per la (giustissima) trafila che ci obbliga, visti i tempi, ad attraversare varchi sotto la lente dei metal detector, la (seppur remota) possibilità che un live attesissimo come quello dei Radiohead possa andare di traverso non può lasciare indifferenti coloro che sono giunti in quel di Firenze da mezza Italia. Ma è pur vero che la band che partorì Kid A, all’epoca vide rinominare dalla critica specializzata il proprio prodotto quale Sergent Pepper’s del terzo millennio (!). Se consideriamo quindi, che l’evento in questione cade nel mese del cinquantennale relativo al capolavoro dei Beatles, la possibilità che qualcosa andasse storto era fatalmente quotata attorno allo zero. L’impazienza degli oltre quarantamila presenti al Visarno viene premiata verso le 21:20, dopo che il bravo James Blake ha scaldato gli ultimi ritardatari accorsi nell’area delle Cascine. L’ingresso di Thom Yorke e soci è accompagnato dallo scontato boato spento immediatamente dalla delicata introduzione di Daydreaming, preludio di un trittico estratto dall’ultimo lavoro A moon shaped pool, disco al solito di contaminazione elettroacustica che regala momenti di altissimo spessore quali Desert island disk e Ful stop, irrorati da una scarica di rigurgiti campionati che cesellano il puzzle sonoro dei Radiohead, con i maxischermi invasi da colori di kraftwerkiana memoria, prima che sugli stessi si componga un collage dei volti dei musicisti impegnati sul palco, soprattutto a beneficio di coloro che seguono lo spettacolo dalle ultime file. Il primo sussulto dell’arena arriva con un grande classico come Airbag, a ruota si alzano i giri grazie a Myxomatosis, splendido affresco post rock estratto da Hail to the thief e dal quale più avanti verrà ripresa 2 + 2 = 5, mentre a chetare la sete di classici old style arrivano in successione Lucky e Pyramid song, con le alchimie chitarristiche (e non solo…) di Jonny Greenwood unite al cantato etereo di Thom Yorke volte a rafforzare il nucleo costituente del sound tipico della band originaria dell’Oxfordshire. Non mancano i cavalli di battaglia dal succitato Kid A, con Everything in its right place ed Idioteque a celebrare uno dei dischi più influenti della musica degli ultimi vent’anni, mentre la conclusione della prima parte del set è affidata all’acclamatissima Bodysnatchers. La serata scorre senza intoppi, Thom smozzica qualche parola in italiano e si diverte gracchiando nel microfono di tanto in tanto, lo spazio dispersivo non intacca la performance della band ed i bis promettono quelle gemme storiche che i presenti hanno atteso pazientemente. Lo spettacolo riprende con You and whose army?, ma è con l’inossidabile Paranoid Android che il pubblico raggiunge una dimensione estatica a tratti indescrivibile: l’importanza del pezzo all’interno della discografia dei Radiohead è notoria, la straordinaria esibizione rasenta la perfezione, con la carica psichedelica che contraddistingue questo capolavoro a conferma della stessa freschezza degli esordi, un brano che veleggia su una mitragliata di applausi tributati alla band britannica dai presenti in tripudio e coinvolti fino all’ultima fila. La chiusura di Street spirit prelude al secondo bis, piatto forte per palati finissimi, con il dittico “bucolico” formato da Lotus flower e Fake plastic trees, prima della conclusiva Karma Police, altro pezzo di storia targato Ok Computer ed intonato in pratica da tutta la platea, con Thom York che dimostra di gradire l’esibizione “congiunta” tanto da allungare il finale solo con voce e chitarra, concludendo uno spettacolo splendido con il brano maggiormente rappresentativo della storia del gruppo, uno dei momenti memorabili della musica di fine secolo e destinato a durare nel tempo senza la minima possibilità di arrugginire nonostante il passaggio degli anni. La cifratura stilistica dei Radiohead non è argomento su cui soffermarsi, al pari dell’eccellente commistione di sonorità che fonde sperimentalismo d’altissimo livello e momenti acustici di splendida rarefazione, ma la componente che ancora una volta sconvolge all’ascolto resta l’incredibile voce di Thom Yorke, tecnicamente ineccepibile e dotata di un lirismo senza epigoni attuali, in grado di compiere di veri e propri voli pindarici senza la ricerca ossessiva di virtuosismi al di fuori del contesto, capace di emozionare con il pathos magnetico sprigionato su pezzi leggendari come lo stesso Karma Police, tanto quanto di scaricare adrenalina sulle note di Mixomatosis. All’interno di un live dei Radiohead confluiscono una serie di elementi che agiscono in simbiosi, dalla vocalità di Yorke alle atmosfere trasognanti e lisergiche, testi ipnotici e colori psichedelici, il tutto a beneficio di un pubblico eterogeneo e numeroso che annovera tanto gli alfieri di Pablo Honey quanto le nuove leve giunte dal recente passato di A moon shaped pool, ma se i Radiohead vengono costantemente annoverati tra le realtà musicali maggiormente compiute dell’ultimo trentennio, un’escursione che spazi tra Ok Computer e Kid A riesce a fornire la chiave di lettura dell’immaginifica visione dell’universo che questo straordinario complesso offre ai propri ascoltatori, plasmando con due epici lavori un sound che ha garantito l’immortalità ad una band relativamente giovane e che ha varcato la soglia del millennio tracciando un solco indelebile nella storia della musica rock e non solo. Fortunati coloro che ne godono.
recensione di Fabrizio ’82