Torino, Supermarket, 14 novembre 2004
Una band di 4 giovani sconosciuti del Tennessee sale sul palco. 3 di loro sono fratelli, figli di un predicatore pentecostale, cresciuti viaggiando con i propri genitori da una parrocchia all’altra del sud degli Stati Uniti, l’altro è loro cugino. Io e il mio amico Giulio abbiamo preso il treno da Roma la mattina per quei 4 capelloni. È la nostra folle passione per gli Strokes che ci ha portato a scoprirli, subito dopo l’uscita del loro primo disco. Un disco – Youth & Young Manhood – consumato. E un secondo disco – Aha Shake Heartbreak, uscito pochi giorni prima di quella data tanto attesa – già divorato come un grande classico. Siamo arrivati al locale con un paio di ore di anticipo, il tempo giusto per stare con le braccia poggiate sul palco. Nel locale non siamo più di 300. Il repertorio non è enorme, ma il concerto è devastante per intensità ed energia. Pezzi tiratissimi, che spesso non superano i 3 minuti, come Red Morning Light, Joe’s Head, California Waiting, Molly’s Chambers, Slow Night, So Long, Taper Jean Girl, Milk, The Bucket, Four Kicks. E un grande capolavoro: Trani. Pugni allo stomaco infilati velocemente uno dietro l’altro. Per noi è l’apoteosi. Un’ora di concerto, ma di grande valore. E un quarto d’ora dopo la fine di quel grande show ci ritroviamo a parlare con loro, con i nostri sconosciuti idoli. Ci autografano i cd, ci offrono da bere e da fumare e restano a chiacchierare con noi per un paio d’ore fuori dal locale, accanto al pullman con il quale girano l’Europa. I più disponibili al dialogo sono Caleb e Jared. Nathan è chiuso sul pullman a farsi i “solitari”, e Matthew è chissà dove, neanche me lo ricordo. Con noi c’è anche una groupie (o aiuta-complessi) valdostana, che dopo aver affermato di essere stata con Julian Casablancas prova in tutti i modi a conquistare i ragazzi. Si parla dell’Italia, di Bush, della necessità che vengano a Roma a suonare perché a Torino fa troppo freddo e a me e Giulio tocca aspettare le 5 del mattino per prendere il treno di ritorno. Hanno la nostra età e li sentiamo molto vicini, seppure provengano da un ambiente socio-culturale abbastanza diverso dal nostro. Di quella serata mi sono rimasti il biglietto del concerto, 2 cd autografati, una lattina di birra che ho conservato come reliquia, mezzo plettro di Caleb e il ricordo di una band che ben incarnava il mito di Easy Rider…
New York, Webster Hall, 23 settembre 2008
Non sono più riuscito a sentire i Kings da quella serata di Torino, vuoi perché non sono mai più tornati in Italia (a quanto pare non fui molto convincente con la storia di Roma), vuoi perché ho preso altre strade musicali, vuoi perché il terzo disco Because of the times (2007) mi ha lasciato un po’ spiazzato. L’ho rivalutato solo ultimamente alla luce della direzione presa dai Kings con il quarto e quinto album. Infatti, è stato in Because of the times che i ragazzi hanno sperimentato di più, mettendo in discussione il loro stile puramente southern, che li aveva fatti conoscere per l’appunto come Southern Strokes. Comunque, al di là di tutto questo, quel periodo mi trovo a New York per uno stage, vengo a sapere del concerto il giorno stesso ed è ovviamente tutto esaurito da un pezzo. Il nuovo disco – il quarto – Only by the night, è uscito il giorno prima: quella del Webster Hall non è solo la prima data del tour, ma una sorta di presentazione del disco, in un locale che non contiene più di 2500 persone. Con la mia amica Ottavia mi apposto all’ingresso del locale a partire dalle 5 e mezzo di pomeriggio, ma di biglietti e di bagarini neanche l’ombra. E oltretutto saremo in 200 a voler entrare. Ma noi non desistiamo e a concerto ormai iniziato la tipa dell’ingresso ci dice che ci sono “30 more tickets”. Della serie: “Uccidetevi tra di voi e chi resta in piedi lo facciamo entrare”… E noi riusciamo a rimanere in piedi e ad entrare. Che emozione! Sono passati poco più di 4 anni da quella notte di Torino, mi trovo in mezzo a più di 2000 americani adoranti e ho perso totalmente la cognizione del fenomeno KOL. I 4 capelloni “sex, drugs and rock’n’roll”, che giravano per l’Europa con il loro pullman pieno di sogni stile Almost Famous sono ormai 4 star affermate. E hanno appena pubblicato il disco che li renderà icone mondiali. Quasi 7 milioni di copie vendute. Un disco molto diverso dai primi 2. Un disco maturo. Pop di grande qualità. Con singoli clamorosi come Sex on Fire e Use Somebody e con pezzi di grande intensità come Manhattan, Revelry , I Want You e Cold Desert. Un disco che mi avrebbe cullato per tutta la mia permanenza newyorkese. E il concerto quella sera è molto sentito da parte della band, in un locale dalla grandezza ideale per un live, perché gli permette un contatto col pubblico molto diretto. Lo stile è cambiato, i pezzi sono stati ripuliti, dilatati, e i capelli tagliati. Ma l’impatto live della band è rimasto lo stesso.
Bologna, Futurshow Station, 3 dicembre 2010
Ed eccoci finalmente al live dei nostri giorni. Avevo bisogno di fare queste premesse, prima di raccontarvelo, perché non sarei mai riuscito a scrivere in modo oggettivo, senza tenere conto del legame emotivo che mi avvicina a questa band. Anche perché poi è questo l’obiettivo di Slowcult: non semplicemente informare e riportare degli eventi, né recensirli in modo distaccato e troppo “neutrale”, ma raccontarli da un punto di vista appassionato, schierato, “parziale” per stimolare quanto meno un dibattito interiore sull’argomento del quale si parla. Ed era quindi per me necessario mostrare il percorso con il quale sono arrivato al concerto di Bologna e dare un punto di vista su come i Kings of Leon ci sono arrivati. L’altra premessa che devo fare è sull’ultimo disco della band – il quinto – Come Around Sundown. L’ho inteso come un’opera di una band che ha paura di rischiare troppo perchè proviene da un enorme successo internazionale. È la prima volta che i Kings of Leon non si mettono in discussione. Gli altri dischi possono piacere o non piacere, ma sono tutti molto diversi tra loro. Stavolta no: Come Around Sundown non è altro che un insieme di canzoni medio-buone sulla scia dell’album precedente. Forse ci si può intravedere un timido ritorno a sonorità più southern, nel senso country- gospel del termine – si vedano i cori di Radioactive, la soul ballad Mary, l’emblematica Back Down South, quasi una dichiarazione di intenti, significativa come i versi di The Face “If you give up New York, I’ll give you Tennessee, the only place to be”. Ma a parte queste piccole parentesi la band si è messa al riparo da eccessivi spostamenti dal sound del loro successo. Il problema è che manca un singolo ai livelli di Sex on Fire e quindi difficilmente quest’album potrà avere i riscontri commerciali precedenti. Fatte queste lunghe premesse, venendo al concerto, i Kings dal vivo restano forti. In un palazzetto strapieno – a dimostrazione del successo avuto finalmente anche in Italia -si presentano sul palco con un turnista aggiunto alla line up ufficiale, a cui spetta il compito di suonare le tastiere e di doppiare la chitarra di Caleb quando necessario. Dal vivo il cantante ha un gran carisma e sta imparando a gestirlo in posti grandi come palazzetti e stadi. Purtroppo resto dell’idea che la loro dimensione ideale dove suonare sia più piccola. Le ampie platee, infatti, oltre ad essere più difficili da gestire e a rendere la band più “fredda”, favoriscono i pezzi “da stadio”, e di questo ne risente principalmente la scaletta, nella quale hanno trovato spazio solo un pezzo del primo album (Molly’s Chambers) e 2 del secondo (The Bucket, Four Kicks), un po’ pochi a mio avviso. Ma ovviamente il successo avuto dalla band in questi anni impedisce di suonare in locali come il Webster Hall. E poi pezzi come Fans, Revelry, Manhattan, Mary (durante la quale si è staccato l’impianto audio esterno e quindi l’abbiamo goduta tramite i monitor destinati alla band), Knocked Up, Use Somebody, Sex on Fire e Closer sono un ottimo biglietto da visita per un grande live. Un’ultima nota dolente è la durata: una band ormai giunta al quinto disco, con un repertorio quindi abbastanza ampio, e che aspira a scrivere la storia del rock, non può suonare concerti di un’ora e mezzo, con soli 21 pezzi. Peccato per la mancanza in scaletta soprattutto di Trani, quel grande pezzo scritto da 4 capelloni che qualche anno fa inseguivano il loro sogno in pullman per l’Europa.
Crawl
Molly’s Chambers
Radioactive
Fans
Revelry
Mary
The Immortals
The Bucket
The End
No Money
Four Kicks
Notion
Pyro
On Call
Back Down South
Manhattan
Knocked Up
Use Somebody
Closer
Sex on Fire
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Recensioni di Alessandro Lepre