Roma, Auditorium Parco della Musica, 12 Aprile 2014
La data era da tempo evidenziata sul calendario, l’attesa era grande: l’autore di uno dei miei dischi preferiti del 2013 (la scelta del sostantivo ‘disco’ non è casuale, vista l’impronta vintage dell’artista) finalmente in concerto in Italia, senza bisogno di trasferte al nord che ormai non ho il fisico (nè il budget) per sostenere, ma qui, a Roma, a due passi da casa, a dieci minuti di scooter dallo stereo dove finora ero stato costretto ad ascoltarlo. Sto parlando di Jonathan Wilson, il cui “Fanfare” uscito lo scorso ottobre aveva fatto gridare al miracolo, al genio, alla riscoperta e reinterpretazione di suoni provenienti dal passato (fine anni sessanta/metà anni settanta) rivisitati ed attualizzati. Un’ irresistibile miscela di vecchio e nuovo che mi ha catturato, a volte ipnotizzato, costringendomi a ripetuti ascolti, sempre alla ricerca di nuovi rimandi a vecchie atmosfere, in una veste sonora raffinata ed impeccabile. L’infatuazione era stata tale da rendere obbligatorio l’acquisto del precedente ‘Gentle Spirit’, che anticipava temi e sapori che in ‘Fanfare’ avrebbero poi preso quota arricchendosi di spessore nei suoni e nel songwriting. Certo, in più di una traccia la somiglianza con musicisti e dischi già sentiti ed amati (Bob Dylan, Neil Young, Jackson Browne, addirittura i Pink Floyd, per non parlare di David Crosby, presente in uno dei brani più belli, Cecil Taylor, putroppo assente dalla playlist della serata) rasentava il sospetto del plagio, ma la resa finale era talmente piacevole ed ammaliante da farmi apprezzare incondizionatamente il lavoro di Wilson con ammirazione e gratitudine per le ‘good vibrations’ che riusciva ad infondere ad ogni ascolto.
Dal vivo, però, le cose non hanno funzionato alla stessa maniera: sarà che forse gran parte della qualità dell’album, oltre alla bellezza di molte canzoni, è dovuta al grande lavoro in sala di registrazione e alla post-produzione (il suo studio nel Laurel Canyon è tra i più ambiti grazie anche alla dotazione di strumenti ed effetti vintage che farebber gola ai collezionisti più accaniti), ma il risultato live ha un po’ deluso le aspettative: riproposti in formazione classica rock/west coast (due chitarre, a volte con la slide, basso, batteria, organo hammond) i brani che su CD apparivano pieni di suoni, armonie felici incastri ed arrangiamenti perfetti qui all’Auditorium risultavano un po’ sciatti, piatti, a volte ‘mosci’. A tratti ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte ad un replicante di Blade Runner, troppo perfetto per essere umano, bello senz’anima. Resta l’alto livello di alcuni brani, Dear Friend e Desert Raven su tutti, ma confesso di essere uscito dalla Sinopoli masticando un po’ amaro e cercando di sopportare la delusione per un’occasione mancata, sperando di assistere in diretta alla consacrazione di una nuova Rockstar, quando in realtà si è trattata di un’onesta esibizione di ottimo artigianato musicale, che solo a tratti ha raggiunto il livello d’Arte sperato.
recensione e video di Fabrizio Forno