Roma, Auditorium Parco Della Musica, Cavea, 19 luglio 2009
Per una sera la canzone d’autore statunitense ha invaso Roma: sulle due sponde del Tevere, a poche centinaia di metri l’uno dall’altro, si sono fronteggiati due dei più celebrati songwriters della scena musicale nordamericana, due mondi distanti anni luce come cifra stilistica, tematiche e biografie personali: allo stadio Olimpico Bruce infiammava i suoi cinquantamila con l’energia e la potenza delle sue tre ore di rock sanguigno mentre all’Auditorium James Taylor scaldava l’animo dei suoi fan con le sue morbide ballads senza tempo.
L’intimismo e l’introspezione sono sempre state il marchio di fabbrica e la caratteristica principale della ormai quarantennale carriera del cantautore nato in Massachussetts ma cresciuto nella Carolina celebrata in una delle sue più celebri canzoni presentate stasera.
L’understatement del suo modo di cantare sin dal glorioso esordio per l’etichetta Apple dei Beatles nel lontano 68 ha fatto breccia nel cuore di generazioni di ascoltatori che hanno identificato nelle sue canzoni una raffinata alternativa alla canzone di protesta che da Woody Guthrie al già citato Springsteen, passando per Dylan e Baez, ha caratterizzato la musica cantautorale statunitense della seconda metà del novecento.
Non si pensi a canzoni banali o smielate, però: ci troviamo di fronte ad un abile orafo che continua a confezionare le sue gemme con la perizia di un artigiano dalla classe infinita e che in tempi recenti ha voluto misurarsi come interprete con alcuni classici del repertorio della sua giovinezza, pubblicando nel 2008 un album di cover che hanno in parte arricchito la scaletta di questa sera.
Brani di Buddy Holly, dei Temptations hanno quindi fatto compagnia al Marvin Gaye di ‘How sweet it is’ che da sempre fa parte dei classici proposti da Taylor.
Apparso dimagrito ma in ottima forma, James scherza col pubblico, anticipa parte della scaletta mostrando ai presenti una grande tavoletta a mo’ di lavagna, ed è accompagnato da un’eccellente band capeggiata dal grande, unico ed inimitabile Steve Gadd, vera colonna portante della buona musica Made in Usa grazie alle innumerevoli collaborazioni tra cui ricordiamo quelle con Paul Simon e Steely Dan.
Ovviamente la parte del leone l’hanno fatta comunque gli innumerevoli successi del suo repertorio, eseguiti in maniera impeccabile e partecipata, con una menzione speciale per Country Road, un’effervescente Mexico ed una sempre suggestiva Shed a little light, dedicata a Martin Luther King, a dimostrazione che pop ballads ed impegno possono coesistere, e con la quale si è chiusa la prima parte dello spettacolo.
Il solo neo della serata è proprio rappresentato da questa pausa di circa venti minuti, che ha spezzato l’incantesimo e la magia create dalla sua musica, anche se alla ripresa dello show non è stato un grosso problema riannodare il filo del discorso, grazie alla serie di grandi brani proposti ad inizio seconda parte: Walkin’ Man, Sweet Baby James, scritta per il suo omonimo nipotino e, soprattutto, Fire and Rain.
Non potevano mancare You’ve got a friend, composta dalla sua ex Carole King e diventata subito un evergreen, una Shower the people da brividi ed un’irresistibile Your Smiling Face con cui ha chiuso la serata prima dei bis, ridotti a due soli brani rispetto ai quattro previsti dalla scaletta qui di seguito indicata: evidente i sessantun anni di James cominciano a farsi sentire…
Resta comunque la magia della sua musica, della sua voce e della sua simpatia e la sensazione che, in fondo, il Boss e James Taylor rappresentino le due facce della stessa medaglia, quella della musica d’autore, genuina e sincera, che non morirà mai.
Recensione e foto di Fabrizio
Scaletta: