Dublin, Royal Hospital Kilmainham, 26 giugno 2014
La confessione è d’obbligo e va fatta d’entrata, così che siate sull’avviso di cosa andrete a leggere: sapevo a malapena chi fosse Jack White fino a un mese fa. Oggi ne so poco di più. Ma intanto ho potuto godere di un concerto per diversi aspetti memorabile. Per questo ve lo racconto, a modo mio e come posso.
“Non te lo perdere!” a metà tra consiglio, supplica e ordine, la raccomandazione di Claudia, quando nel maggio scorso, in visita a Dublino, scopre la data del concerto. Così è giovedì 26/06 – un giovedì lavorativo – e io supero stanchezza, timidezza e scarsa dimestichezza con i concerti (in genere, figuriamoci qua a Dublino, città in cui vivo da poco e quindi ancora in parte sconosciuta) e parto. Sarà il bus 40 che mi porterà in poco più di mezzora da Phibsborough a Liffey Valley, al di là del fiume.
Il manifesto che pubblicizza l’evento dice “Summer Nights in RHK” e l’acronimo sta per Royal Hospital Kilmainham, uno splendido edificio sede del Museum of Modern Art che ha un parco altrettanto splendido. Sull’ampio spazio erboso che affaccia verso il Phoenix Park è allestito il palco. Ma delle notti d’estate c’è quasi nulla, in questa piovosissima serata dublinese. Mi illudo che smetta, ma la pioggia invece cadrà fitta e regolare per tutta la notte. Arrivo quasi in ritardo, tanto che il gruppo di spalla (The Kills) ha già suonato e le casse ritmano rap rilassato, lo spazio è pieno ma ordinato: si beve, si fuma, si ride. Molti, come me, con giubbotto impermeabile, molti altri (nonostante il freddo e come sono ormai abituata a vedere qua con qualunque clima e temperatura!) in T-shirt e a capo scoperto. Birra tanta, gente sbronza altrettanta, ma nemmeno uno sopra le righe: gente rilassata, gente persa e felice. Qui la musica sembra essere sempre e solo gioia e occasione di incontro. Poiché piove fitto io faccio tetto con la mano alla mia birra, ma pare io sia l’unica a farlo: a loro non importa che ci piova dentro e quando devono girarsi una sigaretta lasciano a terra nell’erba già fangosa la pinta nel bicchiere di plastica. Annacquata o no, birra è. Poche fisime, siamo irlandesi.
Il cielo è ancora chiaro e lo sarà ben oltre le dieci e mezzo, come di regola nei crepuscoli infiniti delle estati del nord. Ora iniziano ad entrare i musicisti e le voci di tutti si alzano a reclamare la musica. Una curiosità: gli addetti al palco hanno barbe lunghe alla ZZ-Top e sono abbigliati come amish, camicia bianca maniche lunghe e bretelle, cappello nero a falda larga. L’attesa per la musica cresce ancora e il pubblico esplode quando finalmente arriva lui, elegante in un completo che a me pare verde petrolio e potrebbe essere però qualunque altro colore, capelli nerissimi, il volto affilato e pallido, si muove imponente e però leggero nell’azzurro violento delle luci del palco, essenziali come la scenografia: quattro alti rettangoli blu sul fondo del palco e un monitor, il tutto a richiamare quello che si vede nel video di “Lazaretto”, ultima fatica del nostro dandy elettrificato. Questo è quello che penso: un dandy modernissimo, stralunato e consapevole insieme, uno spirito alato con una specie di magia nelle dita: attacca il primo pezzo e il suono della chitarra già invade orecchie e testa del pubblico.
Pubblico eterogeneo: c’è gente di ogni età, dal ragazzino al sessantenne. Non so se è così per ogni evento rock da queste parti, ma poiché ben presto il concerto, pezzo dopo pezzo, prende delle tonalità blues che non mi aspettavo e poiché è evidente che siano presenti delle sonorità del rock classico, la parte di pubblico dai capelli grigi mi pare avere una sua logica precisa. La parte ritmica è avvolgente e lui ci piazza sopra della roba suonata con l’anima che persino io lo capisco: non sono mai virtuosismi fini a sé stessi. C’è una verità nei suoni di Jack White che arriva senza che ci si debba interrogare più di tanto. Non si spiegherebbe se no perché ora ci si muova tutti ritmicamente, incantati, come fosse un rito fatto di suoni che ci fanno dimenticare la pioggia che continua a scendere copiosa.
Ce la ricorda lui dal palco, dicendo che ci è grato perché sopportare di stare in piedi sotto quest’acqua pur di ascoltarlo è per lui motivo di orgoglio. Me la ricordano gli schizzi sul viso ogni volta che applaudo, che lo applaudiamo, a lungo dopo ogni pezzo o nel bel mezzo di un assolo. Me la ricordano le gocce che vedo scendere dai lobi delle orecchie del ragazzo di fronte a me, che brillano illuminate dalle luci del palco, mentre balla senza sosta. La scaletta non la conosco, ma sarà la prima parte del concerto che mi farà pensare a lui come a Jack il Bianco, lo stregone del rock, colui che possiede talento e conoscenza superiore rispetto ai mortali che lo ascoltano incantati e zuppi, persi dentro tanta bellezza: c’è tanto di tutto in quello che sento, il suo è un rock attualissimo eppure come già detto sono evidenti certi rimandi al rock classico anni ’70, ma poi blues e anche tanto folk nelle ballate interpretate a modo suo. E il folk arriva esplicito quando annuncia un pezzo che dice essere un omaggio a Dublino (“questa qualcuno di voi la conosce già” e alle prime note il pubblico già applaude), una pezzo che farà cantare in coro tutti (tranne me) e che avrei immaginato cantato con lo stesso entusiasmo e tasso alcolico in un qualunque pub di Temple Bar.
Lui si diverte e dà spettacolo. Noi pendiamo dalle sue labbra. Da quella voce esasperata e dalle tonalità estreme a metà tra Robert Plant e De La Rocha, che talvolta diventa invece un parlato carico di pathos, ma soprattutto da quella chitarra. Ho letto da qualche parte che Jack White ha l’amplificatore collegato direttamente all’anima e stanotte ho capito perché.
Il ritmo sale e i musicisti che formano la sua band lo supportano magnificamente. Su tutti gli altri il suono del violino. Il pezzo più conosciuto, quello che ha dato popolarità ai White Stripes, lo riserva alla chiusura: Seven Nation Army chiude il concerto e tutti saltano, scrollandosi la pioggia di dosso, Scopro che qui il ritornello perde la “p” per diventare solo un “Oh-oho oh-oh-oooh!” liberatorio. La tiriamo alle lunghe. Ci piace. Sarà pure il pezzo più scontato, ma il pubblico lo vuole e lui la suona senza farsi pregare, con un certo entusiasmo, pare.
Siamo contenti e lui di più: non se ne va! Continua a intonare pezzi fin quando le norme che regolano gli eventi musicali vengono rigidamente applicate e l’amplificazione silenziata! Ma non smette! Guru del rock, si sporge come può dal palco, chiede e ottiene silenzio e finisce il pezzo! Voce e chitarra. Sono incantata, strabiliata. E inzuppata. Felice. Si esce sorridenti e ordinati, supportati da una organizzazione perfetta. Lungo il Liffey un fiume di gente. Qualcuno canta ancora. Torno a casa dopo una cortese ma ferrea lotta per la conquista di un taxi. Gli ho bagnato tutto il sedile, al tipo. Colpa di Jack White, amico. Se capita ancora da queste parti, non perdertelo. Pioggia o no: musica che accende l’anima. Fidati di chi solo un mese fa non sapeva nemmeno chi fosse.
Live report di Antonella Garofalo.
Foto live della data di Dublino dal sito jackwhiteIII.com
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