Dic 042016
 

Roma, 12 novembre 2016, Auditorium della Conciliazione

★★★★☆

King-Crimson-tour-posterDopo un’attesa durata mesi, l’ennesima incarnazione del “Re Cremisi” sbarca nella capitale proseguendo, lancia in resta, quel percorso dai tratti impossibili da replicare iniziato nel lontanissimo 1969 e che ha contribuito a sconvolgere in maniera indelebile la storia della musica mondiale, e non solamente sul versante del rock progressivo come qualcuno potrebbe banalmente ipotizzare. Inutile dilungarsi sull’importanza rivestita dai King Crimson nell’evoluzione delle sonorità del novecento, sull’impatto immanente di In the Court of Crimson King sul rock (inteso in senso molto, molto “lato”) nonché sulle stravaganze del deus ex machina del complesso, ovvero quel Robert Fripp scontroso e forastico ma che è stato e rimane uno degli innovatori della sei corde più geniali di sempre, oltre alle doti di compositore pressoché uniche a suo tempo cesellate dalle liriche poetiche del guru Pete Sinfield. Certo, di acqua sotto i ponti ne è passata tanta in quarantasette (!) anni, e l’unico superstite della formazione originale è proprio Fripp. Inoltre, i britannici King Crimson sono divenuti nell’arco del tempo anglo-americani, i capelli sono incanutiti e le batterie nell’occasione di questo tour 2016 sono diventate tre! Ma con Fripp è scontato che le banalità non vengano contemplate, quindi tanto vale soffermarsi sull’esibizione del complesso che non tradirà le attese dei presenti confermando quanto la qualità faccia la differenza nel corso degli anni, sopperendo così alla verve giovanile giocoforza smarrita per questioni anagrafiche. La sezione ritmica risalta chiaramente, vista la contemporanea presenza di Gavin Harrison, Jeremy Stacey e soprattutto dello storico Pat Mastellotto alla batteria, con lunghissime digressioni dei tre strumentisti che stupiscono per dinamica e coordinazione, scambiandosi i “soli” di tanto in tanto e godendo nel contempo del consueto, straordinario lavoro di Tony Levin al basso. Certo, qualche virtuosismo di troppo sbuca qua e là, ed alcune lungaggini sono percepibili, come ad esempio nella storica Epitaph che non mantiene la stessa aura minimal della versione studio, ma il risultato è complessivamente stupefacente, grazie anche alla splendida voce del chitarrista Jakko Jakszyk, forse la sorpresa maggiormente gradita di questa serata romana. Infatti, la versatilità del vocalist è riuscita nell’impresa di stupire i presenti per pulizia ed intensità, non propriamente uno scherzo vista la difformità di stile riscontrabile nei lavori dei King Crimson e le diverse tonalità articolatesi nei complessi lavori susseguitesi in oltre quattro decenni, ovvero l’intero arco temporale attraversato da una band che non ha mai riproposto un disco uguale al precedente, spaziando tra rock, prog, fusion, jazz e quant’altro. Nella prima parte dello show, Fripp & co spalmano parecchia della loro essenza squisitamente progressiva, pescando da In the wake of Poseidon con Pictures of a city e Peace: Anend, riproponendo anche brani più recenti quali Radical Action (suddivisa in due movimenti) o Meltdown, prima di rispolverare perle come Fracture o Easy Money e concludendo l’atto piazzando un Level Five tirato a lucido ed ulteriormente dilatato rispetto alla già sostenuta durata originaria. Impossibile non menzionare la splendida esibizione di The court of Crimson King, eccellente nell’esecuzione e perfettamente intonata da Jakszyk e che viene salutata dall’ovazione dei presenti in sala, uno dei momenti più coinvolgenti dell’intero happening. Nella seconda parte Lizard esplode in tutta la propria potenza, preludendo ad un doppio carpiato che finisce dritto dentro Islands, dal quale vengono estratte primizie come The letters e Sailor’s Tale, prima della già accennata Epitaph che, come detto, forse risente un pelino dell’eccessiva potenza della sezione ritmica, snaturando a tratti l’intimismo di un brano avvolgente che resta pur sempre tra le vette compositive di Fripp. E mentre Levin si alterna tra il basso e lo stick e Mel Collins ai fiati scandisce le tematiche, Fripp riduce le performance chitarristiche per sedersi alle tastiere e dettare le tempistiche ai propri figliocci, mai scevri dell’occhio vigile del loro condottiero, che appare al solito imperturbabile ma senza lesinare la consueta, maniacale attenzione ad ogni minimo particolare, compresa qualche severa occhiata ammonitoria al pur compostissimo pubblico presente. La chiusura del secondo atto è affidata ad un micidiale trittico composto da The talking drum e da Lark’s tongues in Aspic, tratte dal capolavoro datato 1973 e concluso con la lunghissima Starless, esaltazione pura di tutti i musicisti presenti, con particolare riferimento al magistrale tocco di Mastellotto dietro le pelli, vero headdrummer sul palco ed oramai batterista di riferimento per la sua ventennale esperienza nei Crimson. Al momento dei bis, dopo Banshee legs bellhassle, finalmente arriva il momento atteso da ogni singolo spettatore: in tutta la sua potenza, esplode 21st Century Schizoid Man, brano manifesto di più generazioni e dell’intero movimento prog, pietra miliare del rock novecentesco (e non solo) che rifulge in tutta la sua magnificenza, con il testo di Sinfield oggi intonato da Jakszyk e le batterie che espandono la durata di questo brano epocale ben oltre i sette minuti originari.king2 Il pubblico è in tripudio, tutti si alzano in piedi e Tony Levin inizia a scattare fotografie, rompendo il patto d’inizio concerto che vietava espressamente filmati, selfie e consimili (un classico quando c’è Fripp sul palco…) e concedendo ai presenti estasiati la possibilità di filmare i sette musicisti che hanno offerto una performance d’altissimo livello all’interno di uno dei live più attesi della stagione. Indubbiamente, di tempo ne è passato tanto dall’esordio di questa leggendaria band, eppure dal 1969 i King Crimson si sono issati in vetta alle preferenze degli appassionati di progressive mondiale, venendo definiti da numerosi critici come gli “inventori” del genere suddetto. Ebbene, non è questo il luogo per tali dissertazioni, visto e considerato che non sembra importante definire stucchevoli classificazioni peraltro in continuo aggiornamento a seconda dello scrivente o del prezzolato autore di turno. In definitiva, non risulta necessario neanche insistere sulla misantropia di Fripp, sulla sua scarsa considerazione del rapporto col pubblico, su un’immagine costruita nel tempo che lo ha in qualche modo intrappolato in un clichè all’interno del quale certa stampa ha preferito inchiodarlo, rischiando di sminuirne l’assoluto talento e la visionarietà fuori dal comune, progenitrice di un numero indefinito di dischi sorti o influenzati da In the Court of Crimson King o Lizard, ed ancora da In the wake of Poseidon e Lark’s tongue in Aspic. Resta un dato di fatto incontrovertibile e nostalgico, ascoltando questo nucleo di strepitosi musicisti guidati dal genio Robert Fripp: le vette creative e l’innovazione a suo tempo sprigionata dalle band del “periodo d’oro” probabilmente rappresentano lo zenit dell’epopea del rock novecentesco. Così, certe sonorità nella discografia attuale sembrano irrimediabilmente relegate ad un passato facente ormai parte della storia della musica e snaturato dalla (quasi) totale inconsistenza delle proposte attuali. Purtroppo, che ci piaccia o no, in questo modo non si suonerà mai più. Mettiamoci il cuore in pace.

recensione di Fabrizio ’82 

 

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