Roma, Init, 28 maggio 2009.
La lunga ed ordinata fila di persone che già alle 21.30 iniziava dagli archi dell’Acquedotto Felice e si dipanava lungo via della stazione Tuscolana fino all’ingresso dell’Init dava subito l’idea di quanto attesa fosse questa data romana del trio irlandese dei God Is an Astronaut, per la prima volta in tournèe in Italia. Il perchè di una tale attesa è dovuto a quei miracoli di passaparola che ogni tanto ancora succedono in un mondo ultraglobalizzato come quello musicale; in sostanza, un dj di una nota emittente romana si innamora del gruppo e lo passa a ripetizione, gli ascoltatori si incuriosiscono ed ecco il risultato. Successe dieci anni fa con i Porcupine Tree, che per molto tempo furono più ascoltati da queste parti che a casa loro. Sta succedendo anche stavolta con un gruppo che peraltro qualche somiglianza con Steven Wilson e soci (ma non solo) ne ha. E, come dieci anni fa ,le aspettative dei presenti non sono affatto andate deluse. La band dei fratelli Kinsella ha dato vita ad un corposo live degno della fama che i quattro album e l’EP Moment of Stillness hanno contribuito a creare. Preceduti dai decorosi Tomydeepestego, quartetto anch’esso di musica strumentale certamente più dura e discontinua di quella proposta dal trio, i God Is an Astronaut sono saliti sul palco di un Init mai sembrato tanto piccolo e pronto ad esplodere. Impianto luci praticamente assente, un videoproiettore che trasmette immagini di bombardieri di chissà quale guerra che sganciavano il proprio carico di morte, oppure immagini di esplosioni nucleari, di pali della luce che si rincorrono lungo orizzonti infiniti: il post-rock dei tre sembra integrarsi perfettamente con la scelta dei video; i titoli di alcuni dei loro brani sembrano confermare quest’impressione: When Everything Dies, Dust And Echoes oppure Far From Refuge, che dà il titolo al loro album del 2007, di cui faceva bella mostra di sé un’imperdibile versione su vinile a tiratura limitata al banchetto allestito per il merchandising. La miscela di ipnotici e rarefatti arpeggi su un tessuto di tastiere che improvvisamente esplode in atmosfere più noise di caos organizzato rende la musica dei God Is an Astronaut unica e non ascrivibile a nessun archetipo: certamente i riferimenti ai Mogwai ed alcune atmosfere eteree dei Sigur Ros possono aiutare a descriverli, ma l’originalità della proposta non merita certamente la limitazione di accostamenti, analogie e riferimenti ad altre seppur prestigiose band strumentali.
Il solo limite di una proposta del genere è quello imposto dal percorso evolutivo che dopo sei anni inevitabilmente li dovrà portare a percorrere strade alternative, forse più legate alla forma-canzone o a dilatare ulteriormente i brani fino a creare suites di maggior respiro e, appunto gli Infinite Horizons da loro menzionati. Il pubblico, certamente penalizzato dal sovraffollamento e dalla temperatura africana all’interno della sala, segue in religioso silenzio ed esplode di entusiasmo all’ascolto delle prime note del loro brano più celebre, quella Fire Flies And Empty Skies che potrebbe essere scelta da inviare nello spazio quale espressione della migliore cultura musicale del terzo millennio sul pianeta terra: se dio è davvero un astronauta, la ascolterebbe estasiato.
PS: Gli spettatori usciti tra un concerto e l’altro per fumarsi una sigaretta hanno raccontato di aver visto altrettanta gente rimasta fuori dalla sala perché impossibilitata ad entrare: con tutto il rispetto per la splendida capacità organizzativa dell’Init, una delle migliori realtà romane per la musica dal vivo, ci domandiamo chissà quanto Roma dovrà ancora aspettare per avere spazi da concerti più adatti, per capienza ed accoglienza, ad eventi di questa portata internazionale.
Recensione by Fabrizio & Attilio
Shadows
All is Violent, All is Bright
Tempus Horizon
From dust to the beyond
Fragile
Echoes
Radau
A Moment Of Stillness
Zodiac
Far From Refuge
Snowfall
Suicide By Star
Route 666
A Deafening Distance
Fire Flies And Empty Skies
The End Of The Beginning