Roma, Init, 29 gennaio 2015
Quando viene nominata la città di Seattle automaticamente il nostro pensiero va al movimento grunge e a tutte le band che hanno orbitato all’interno di questo vasto e indefinibile calderone musicale: la sola comunanza geografica ha permesso di associare tra loro formazioni in molti casi davvero agli antipodi, prive di qualsiasi punto di contatto artistico. Il fatto che gli Earth non siano mai stati classificati come band grunge, benché attivi proprio durante l’età d’oro e provenienti direttamente dalla più popolata città dello stato di Washington, può farci intuire la peculiarità e l’innovazione che fin da subito ha contraddistinto la creatura di Dylan Carlson.
Per provare a descrivere il loro mastodontico muro sonoro composto unicamente da bordoni monolitici, oppressivi, iperdistorti e privi di qualsiasi connotazione lirica e ritmica (la batteria è assente) si sentì all’epoca il bisogno di associare il termine drone anche alla musica metal. Ecco nascere quindi il drone-doom-metal, di cui gli Earth possono essere considerati a tutti gli effetti i veri creatori (se si escludono gli esperimenti più estremi dei Melvins). Nei 74 minuti del loro debutto “Earth 2: Special Low-Frequency Version” (curiosamente pubblicato proprio dalla Sub Pop, l’etichetta grunge per antonomasia), vera e propria pietra miliare della musica estrema di fine secolo, sono presenti tutti gli elementi tipici e caretterizzanti del drone, che verranno ulteriormente esplorati e portati avanti qualche anno più tardi da eccellenti band quali Sunn O))) e Boris.
A causa di gravi problemi di tossicodipendenza del leader Dylan Carson, la band cessa però di esistere nel 1996, per poi riapparire in una veste del tutto nuova durante i primi anni del duemila: con l’ingresso in pianta stabile della batterista Adrianne Davies, gli Earth vengono contaminati da influenze country e southern rock, diventando quasi una sorta di Crazy Horse del nuovo millennio alle prese con una continua rilettura di “Cortez The Killer” in chiave maggiore, ma assai più lisergica e pesante. Nel corso degli anni strumenti esterni, quali ad esempio i violoncelli, fanno via via capolino all’interno delle composizioni, allontanando una parte del pubblico degli Earth, ma creando allo stesso tempo nuovi adepti.
“Primitive and Deadly”, l’ultimo album in studio edito nel 2014 dalla Southern Lord, vede per la prima volta un cospicuo inserimento di voci all’interno dei brani, prima fra tutte quella di Mark Lanegan, immenso artista che negli ultimi anni è apparso però piuttosto sottotono, sia nei suoi lavori solisti sia nelle sue innumerevoli collaborazioni: ma in questo caso il risultato è davvero eccellente, tanto da farci sperare che la nuova Mark Lanegan Band possa in un prossimo futuro confluire negli Earth.
Date le premesse, l’insistente pioggia che ha colpito negli ultimi giorni di gennaio la capitale, non ha quindi certamente intimorito il popolo rock romano, che, incurante dell’acqua, ha atteso diligentemente fuori dal cancello dell’Init il proprio turno per assistere al live. Al nostro ingresso il duo composto dal bassista degli Earth Don McGreevy (membro anche dei folli Master Musicians Of Bukkake) e Rogier Smal si è purtroppo già esibito, lasciando il posto a un altro combo, i Black Spirituals. Il loro math-noise-tribale ci è sembrato molto caotico e confuso, all’interno del quale i feedback del chitarrista Zachary James Watkins tentavano di dare una sorta di ordine e legittimità agli istinitivi tempi free del batterista Marshall Trammell, ma senza sortire alcun interesse nell’ascoltatore. Poco più di venti minuti, ma è la noia a farla da padrone fin da subito.
Una noia che a onor del vero ha fatto capolino diverse volte anche durante l’esibizione degli headliner Earth. Ogni brano che va a formare l’intero set di un’ora e mezza è infatti caratterizzato da un unico giro di accordi, quasi sempre a metà strada tra blues e southern, dove il peculiare e teatrale drumming a rallentatore della batterista fa da contraltare ai riff fangosi di Dylan Carlson (visibilmente dimagrito), supportati diligentemente dal bassista. Il tutto dovrebbe evidentemente spingere l’ascoltatore a intraprendere un viaggio mentale all’insegna della ieraticità e della ritualità, ma la meta appare francamente difficile da raggiungere. La nuova formula degli Earth è troppo ripulita, innocua, l’unico elemento drone avvertibile è quello della reiterazione, ma assai fine a se stessa. Le caratteristiche del drone nelle sue molteplici sfaccettature, che permettono realmente un trip sonoro, sono in realtà altre: la primitività dei Velvet Underground, il Do infinito di Terry Riley, il motorik dei Neu, la ciclicità-garage dei Loop, gli accordi malefici dei Sunn O))), la sacralità degli Om, il freak-space degli Acid Mother Temple.
Gli Earth sembrano voler continuare a intraprendere la strada del drone, ma con mezzi e soluzioni tipiche del rock-classico: un connubio che purtroppo non porta al risultato sperato, come testimonia il concerto che si trascina verso la sua conclusione con grande fatica. Carlson e soci dovrebbero avere quindi forse il coraggio di staccarsi definitivamente dal genere che hanno fondato e di non vergognarsi di assumere la loro nuova forma: quella di un gruppo rock, fatta di riff semplici e invariabili, su cui far declamare da un cantante blueseggianti e funebri liriche: e se quel cantante dovesse essere davvero Mark Lanegan, la cosa non potrebbe che giovare a entrambi gli artisti, e ancor più a noi ascoltatori.
Recensione di Federico Forleo
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