Roma, Stadio Olimpico, 16 giugno 2009
Unico fenomeno che dagli ’80 ad oggi ha attraversato a testa alta ventinove anni di carriera, nascendo come alternative band dallo stile patinato, che faceva l’occhiolino alle teenager, per poi conquistare nel corso degli anni un consenso sempre più vasto fino a diventare una band di culto planetario e che oggi riempie gli stadi di mezzo mondo, i Depeche Mode si presentano dopo 3 anni di assenza al cospetto del pubblico romano con mezz’ora di anticipo (in controtendenza rispetto alla norma che generalmente è fatta di ritardi) sull’annunciato orario d’inizio di questa prima data italiana del “Tour of the Universe”. Mentre parecchia gente è ancora alle prese con i tornelli d’ingresso, all’interno dello Stadio i presenti, increduli, si alzano da terra alle prime note di “In chains” brano di apertura del concerto, seguito da “Wrong” e “Hole to feed” proposti nella medesima sequenza che apre il loro ultimo lavoro.
La regia di Anton Corbijn, da sempre sapiente e raffinato curatore d’immagine del gruppo, trasforma il palco in una futuristica quinta scenica di luci pulsanti e, grazie all’ausilio di tre megaschermi, inonda letteralmente la platea di immagini suggestive che accompagnano l’esecuzione di ogni singolo pezzo proiettando alternativamente contributi video e riprese live, queste ultime trattate come videoclip o, meglio ancora, come vere e proprie installazioni pop-art, dove Gahan e soci vengono raffigurati con contorni posterizzati e colori pulsanti o ancora scomponendo e clonando all’infinito i membri della band.
Dave Gahan appare in gran forma nonostante le sue ultime disavventure fisiche (pare questa volta non dipendenti dalla sua indole autodistruttiva) ma, come già in passato ci ha dimostrato, è una sorta di fenice capace di risorgere continuamente dalle sue ceneri. Tiene testa ai 50.000 dell’Olimpico con piglio istrionico, si dimena a torso nudo roteando vorticosamente assieme all’asta del microfono, regalando più volte grandi sorrisi di compiacimento e mostrando tutta la soddisfazione per il calore che il suo pubblico riesce a trasmettergli.
Dopo i tre brani di apertura, con una raffinatissima cornice scenica (a mio avviso una delle migliori) raffigurante il volo di un corvo su uno sfondo desertico che, nel momento in cui si posa, apre un inquietante e gigantesco occhio sul palco, proiettato all’interno di un geniale supporto sferico al centro dello schermo principale, attacca la dirompente “Walking in my shoes” catapultandoci all’indietro nel tempo e facendo riaffiorare antiche emozioni. La voce è intensa, il sound è impeccabile. Martin Gore, mente del gruppo e alter ego di Gahan, nonostante indossi una mise di lamé bianco-argentata, appare comunque più discreto e riservato del suo compagno al quale lascia campo libero fino al momento in cui si rende protagonista interpretando da solo e in sequenza le toccanti “Little soul” e “Home”, in una versione intimista che per un attimo placa gli animi.
Un attimo, appunto, la quiete prima della tempesta che si apprestano a scatenare sulle note di brani coinvolgenti come l’elettro-gospel “Peace” scandito a squarciagola dal pubblico, mentre sugli schermi si sovrappongono suggestive immagini d’epoca di guerra e pace. Ma è sulle note dei loro successi del passato che avviene la catarsi tra la folla e la band: bastano pochi accordi presi alla lontana di “Enjoy the silence” per ritrovarsi catapultati in un corpo a corpo che non si scioglierà fino ai bis finali, dove il susseguirsi di brani travolgenti quali “Stripped”, “Master and servant”, “Strangelove”, va in crescendo fino a trovare il suo culmine con l’esecuzione di “Personal Jesus”.
Chiude questa due ore di fuoco la splendida “Waiting for the night” duettata dalla coppia Gahan/Gore le cui forti presenze sceniche hanno oscurato la performance del terzo membro storico della band, Andrew Fletcher. Ottime invece le prove di Christian Eigner alla batteria e Peter Gordeno alle tastiere.
A questo punto l’unica osservazione da fare è proprio sulla location: lo stadio Olimpico. È dispersivo per antonomasia in quanto stadio e ulteriormente perché circondato dalla pista di atletica. Detto ciò, se rivolgete ai presenti sugli spalti e sul prato la medesima domanda, e cioè un giudizio sul concerto, riceverete sicuramente verdetti discordanti. Mentre i primi lamenteranno un certo distacco e ovvietà in relazione alla performance, come se avessero assistito ad una (seppur bella) proiezione cinematografica, gli altri, quelli che hanno cantato, sudato, sofferto per ben due ore e soprattutto guardato in faccia e non solo sugli schermi i loro beniamini abbattendo le barriere alzate dalla distanza, si porteranno a casa qualcosa in più, che difficilmente riuscirà ad essere catalogato come banale e dimenticato nei cassetti della memoria.
Live report by Claudia (Attilio a supporto)
foto di Lucrezia Serrani
Scaletta:
In Chains
Wrong
Hole To Feed
Walking In My Shoes
It’s No Good
A Question Of Time
Precious
Fly On The Windscreen
Little Soul
Home
Come Back
Peace
In Your Room
I Feel You
Policy Of Truth
Enjoy The Silence
Never Let Me Down Again
Stripped
Master And Servant
Strangelove
Personal Jesus
Waiting For The Night
La recensione coglie perfettamente lo spirito del concerto e della esibizione dell’ensemble, che proviene dai bistrattati (ma magnifici) anni Ottanta. Vorrei aggiungere due parole: i Depeche Mode sono stati i creatori della Dance Elettronica, le discoteche ed i moderni DJ li considerano un gruppo imprenscindibile, un pò come, per diversi motivi, i Kraftwerk, certamente meno commerciali e più ostici. Esprimono un suono crepuscolare ed intenso, che ha influenzato anche molte Bands operanti nel filone della Dark Music, in particolare Dark Ambient; a mio parere, però, nel bellissimo concerto dell’Olimpico, non hanno mostrato quella verve innovativa, che d’altro canto manca, al pur bello, ultimo CD, Sounds of the Universe: hanno amministrato sapientemente il loro sound, ma sono ormai privi di quelle magnifiche invenzioni elettroniche che li hanno resi famosi.
E’ mancata a mio parere, la dolorosa inquietudine esistenziale, che emanava dai loro precedenti albums, in particolare dai bellissimi Songs of faith and devotion e, in tempi più recenti, Exiter. Impeccabile il corredo visuale di Anton Corbijn.
Complimenti, comunque, per avere descritto perfettamente l’atmosfera della serata ed aver colto con grande chiarezza lo spirito della Band!
Complimenti per la bellissima recensione!
Io c’ero ed aggiungerei solo una nota: il palco troppo basso! Avevo comprato il biglietto per il prato proprio per gustarmeli meglio (qualche anno fa avevo visto Madonna all’Olimpico e dalla tribuna Tevere serviva il binocolo) ma non e` servito granche`… Comunque dei grandi!!
Ciao, Br
Sacrosanta osservazione, Bruno!!
Il palco era effettivamente troppo basso, infatti la maggior parte del concerto l’ho visto sulle punte, a mò di Carla Fracci. Però ti assicuro che la distanza infinita è cosa ben peggiore come hai potuto constatare a tue spese nel precedente concerto di Madonna e come anche a me è successo in passato con i Rolling Stones. Finché il fisico ci assiste…. prato forever!!!
E grazie per i complimenti. Claudia.
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