Gen 082013
 

Ciampino Roma, Orion Live Club – 14 dicembre 2012

Nella bella cornice dell’Orion Club, vero e proprio “Auditorium Rock” alle porte di Roma, si è svolto un evento singolare, di quelli per cui il termine underground sembra fatto su misura. I Death in June, lo storico gruppo inglese che da trent’anni è in attività, creatore del folk apocalittico si è esibito davanti a non più di due/trecento persone, supportato da uno degli ensemble italiani più ammirati all’estero, gli Spiritual Front. Ambedue le performances sono state suggestive e sono state caratterizzate dal tiepido entusiasmo del popolo dark lì convenuto, equamente composto di giovani e persone attempate, che verosimilmente seguono “La Morte in Giugno” da quanto si formò, nei primi anni ottanta, anche se, per le ragioni che appresso enunceremo la prova di Douglas P. ci ha parzialmente deluso.

Spiritual Front: Poesia Nichilista.

★★★☆☆

La band di Simone “Hellvis” Salvatori, eccellente ensemble romano di Dark Folk, ha svolto con dedizione ed impegno la sua performance: un palco pieno di strumentazioni, sgabelli, microfoni, una batteria con grancassa, il tutto su di uno sfondo ove scorrono le immagini del film “Mamma Roma” di Pier Paolo Pasolini, che accompagnano l’intera esibizione, rammentandoci come il poeta friulano rappresenti, insieme al grande regista tedesco Rainer Werner Fassbinder, una delle icone del gruppo.
La performance è tesa, potentemente drammatica, articolata soprattutto sui brani tratti dall’album che a tutt’oggi rappresenta il loro capolavoro, “Armageddon Gigolo”. In bilico tra una ispirazione che sembra voler rendere omaggio a Johnny Cash, ed un cantato drammatico stile Nick Cave and The Bad Seeds, la band romana ha esordito con l’avvolgente “The Shining Circle”, accorata, disperante storia di vita, seguita dalle bellissime “Jesus Died in Las Vegas” e dalla sublime e coinvolgente “Slave”, accompagnate da un’ovazione. Intensamente drammatico, il brano più bello, “I Walk The (Dead) Line” canta la sottomissione sessuale, il sacrificio per amore sino alla morte. E sono le ballate noir la cifra stilistica di questo ensemble misconosciuto, caratterizzato da un’aspra poesia nichilista, che canta il degrado delle menti e dei cuori, la dissoluzione, l’alcool, la droga, il sarcasmo. Storie di vita e di morte, di abbandono, di caduta e redenzione, che sembrano uscite dalla penna di un grande scrittore esistenzialista.
Non a caso nelle note dell’album sopracitato, veniva reso omaggio al misconosciuto, straordinario Nico D’Alessandria, regista indipendente dell’underground romano, splendido cantore del degrado e della solitudine urbana, autore de “L’Amico Immaginario” (la solitudine di un intellettuale a seguito della morte del miglior amico, con un grande Victor Cavallo) e “L’Imperatore di Roma”, (L’emarginazione e la follia di un tossico nella Roma contemporanea, interpretato da Jerry Sperandini, internato nell’ospedale psichiatrico di Aversa, affidato per le riprese al regista) . “Soulgamber” suggestiva e decadente, e la splendida ballata morriconiana “Hey Boy” infiammano il pubblico, e la performance si chiude con l’inno di degradazione e morte “Bastard Angel”, che assume ad un certo punto un ritmo da vaudeville.
Eleganti, in abiti neri impeccabili con bianche cravatte, impassibili, gli Spiritual Front, perfettamente calati nel loro ruolo di performers maledetti, utilizzano la carismatica presenza scenica del leader Salvatori, dichiaratamente gay, trasgressivo, che con gli splendidi arpeggi chitarristici della sua dodici corde e la voce potente e suadente, che ricorda quella di Dave Gahan dei Depeche Mode, conferisce un impatto drammatico alle loro “Murder Ballads”, dalle atmosfere torbide e decadenti, proprie di poeti maledetti alla Rimbaud. Uno stile trascinante, pieno di energia che sposa un teatrale dark folk a ritmi di cabaret e di tango, con inserti di violini ed archi, che sancisce la dicotomia tra l’anelito alla spiritualità e le paludi del degrado del corpo e dell’anima, nel terrore della fine.
Vero ensemble alternativo allo show business, rappresenta un unicum nel panorama musicale italiano: emoziona e fa riflettere, merita di essere seguito.

Death in June: I Cantori dell’Apocalisse.

★★★☆☆

Ed ecco sul palco i Death in June, o meglio, Douglas Pierce (che si firma Douglas P.), che indossa la sua maschera bianca e la tuta mimetica, accompagnato dal solo percussionista e rumorista John Murphy. Sullo sfondo, un drappo con un teschio stilizzato ed il discusso simbolo del “Totemkopf”, che raffigura la morte, che era appuntato all’uniforme tedesca nell’ultimo conflitto mondiale, unitamente al numero sei, che indica il mese di giugno.
Bisogna dire che la performance del gruppo capostipite del Folk Apocalittico, per le ragioni che diremo, è stata complessivamente deludente. Non che manchi lo stile e la capacità di evocare passaggi d’incubo con le sue tetre ballate, ma l’impressione è che Pierce, presentatosi solamente con chitarra e percussionista al seguito, per un vero live set acustico, non si sia impegnato più di tanto.
Il gruppo, di cui all’origine facevano anche parte i talentuosi Patrick Leagas e Tony Wakeford (che si allontaneranno entrambi da Douglas P., Wakeford per fondare il glorioso ensemble di neofolk Sol Invictus) nacque dalle ceneri del rock alternativo dei “Crisis”, estremamente politicizzato a sinistra, ed inizialmente (erano i primi anni ottanta) si qualificò come ensemble “Post Punk” alla Joy Division, ma con influenze psichedeliche, che però non divennero mai rilevanti; l’attenzione fu sopratutto rivolta ai Velvet Underground, ed alla Poesia Decadente: ben presto, infatti, l’ introspezione divenne la vera cifra stilistica.
Pearce cominciò ad interessarsi di storia moderna, ed a nutrirsi dell’immaginario delle S.A., l’ala sinistra del nazionalsocialismo, capitanata da Rohm, dichiaratamente omosessuale, che fu sterminata da Hitler durante la “Notte dei Lunghi Coltelli”: da tale formazione mutuò la divisa che utilizza nei concerti, e che lo ha spesso esposto a numerose accuse di filonazismo, peraltro da lui assolutamente respinte.
In realtà, l’ambiguità è la costante cifra espressiva dei Death in June, che utilizzano l’equivocità come arma di provocazione estetica, dove l’interpretazione del mondo è sempre ambivalente, rendendo la complessità tematica il loro stile di vita.
Affascinato dalle meravigliose costruzioni poetiche di Mishima, e dall’intrigato immaginario erotico di Genet, nonchè dai grandi poeti marginali della trasgressione, componeva liriche avvolgenti, profonde, di cupa fascinazione, fin dall’inizio utilizzando una strumentazione ruvida e scarna, dove gli assoli di tromba conferivano pathos alle sue liriche, ed effetti elettronici alquanto minimali generavano una forte, angosciosa suggestione, emblemi di un decadentismo senza spiragli di luce, frutto di una nostalgia e di un pessimismo “cosmico” che vedeva il genere umano come perso ed incapace di redenzione.
A questo si affiancavano nelle composizioni marce militari, tamburi potenti, per evocare la tragedia della guerra e come nella potente “All Alone in Her Nirvana” il dramma della prigionia, filtrato attraverso contenuti introspettivi, come i riferimenti alla religione buddista del nirvana, ossia la liberazione dal ciclo delle reincarnazioni.
Ma fin dal capolavoro “Nada” del 1985, Douglas P. oltre che con le cascate di suoni elettronici, testimonianza del cupo esistenzialismo della formazione, cominciò a confrontarsi con la forma canzone, affiancando il suono acustico della chitarra, trattata in maniera straniante, aprendo la strada a quel “Folk apocalittico” di matrice esoterica, di cui “La Morte in Giugno” diventerà maestra indiscussa, insieme ai Current 93 di David Tibet, che non a caso collaborò al brano anthemico “She Said Destroy”, e, successivamente, a numerose altre comuni esperienze creative.
Tornando alla performance dell’Orion, Pierce all’inizio con la sua maschera ha aperto il concerto ai tamburi, accompagnato dalla foga percussiva di Murphy, ma toltosi la maschera si è abbandonato alle sue splendide canzoni, con voce e chitarra, anche se il live set è risultato, nel complesso, troppo scarno e poco incisivo; Il personaggio non ha mancato, peraltro, di rivolgersi più volte al pubblico, mostrando una buona dose di autoironia..
La bellissima “Fall Apart” è resa in maniera quasi irriconoscibile, stravolta nella melodia, “Little Black Angel”, il bellissimo inno pacifista tratto dal repertorio del Reverendo Jim Jones, (l’utopista, guru della setta del “Tempio del Popolo”, che portò novecento persone al suicidio collettivo in Guyana, nel 1978), senza assolo di tromba, perde fortemente pathos, “She Said Destroy”, lugubre canzone esoterica, una specie di thriller paranormale che si svolge a New York, da noi sopra indicata, risulta troppo scarna; anche la lirica Peaceful Snow appare meno intrigante che nell’omonimo album, ove Pierce si avvaleva del piano dello slovacco Miro Snejdr.
Molto intrigante, invece, l’esecuzione di “But What Ends When the Symbols Shatter?”, inno per un anelito ad un rinascimento umanistico, ma anche dell’esoterica “Runes And Men”. Priva di effetti elettronici “Kameradshaft”, potente inno drammatico, perde ogni suggestione, “All Pigs Must Die”, anthemico inno neofolk, pieno di rabbia, è intrigante quel che basta, “Ku Ku Ku”, canto buddista frutto di un sogno dell’Autore, totalmente sbiadita, “la bellissima “God Morning Sun” stravolta nella melodia, perde essenza, “Rose Clouds of Holocaust” ha pur sempre una sinistra suggestione.
Gli applausi sono convinti, ma a parte un gruppo di fedelissimi che, sotto il palco, mimano tutte le sue canzoni, l’entusiasmo non sembra la caratteristica della serata.
Appena Pierce si allontana per una pausa, un DJ inserisce altri brani; infastidito, egli ritorna sul palco e dice di togliere quella “merda”, concludendo il concerto senza particolari colpi d’ala. Lodevole il tentativo de “La Morte in Giugno” di rinnovarsi, sperimentando e inserendo brani più insoliti nel repertorio, ma alcuni di essi, di matrice prettamente “industrial” non sono rappresentabili con efficacia in un puro live set acustico. Rimane la potente presenza scenica di un musicista, un Leonard Cohen travestito da “Poeta Maledetto”, che canta una sconcertante “Estetica della Fine”, a suo modo dotato di grande carisma e fascinazione. A chi volesse saperne di più consigliamo lo splendido volume di Aldo Chimenti “Death in June – Nascosto tra le Rune”, edizioni Tsunami.

Recensione di Dark Rider

  3 Responses to “Death in June + Spiritual Front: Il Ritorno del Folk Apocalittico”

  1. Ci sono un po’ di incongruenze: la più assurda è che salvatori sia dichiaratamente gay! Non è assolutamente vero. Salvatori non è gay. Ha una ragazza e li conosco personalmente!

  2. Bene, prendiamo atto e facciamo ammenda! In realtà quell’informazione era stata riportata da più fonti, che evidentemente avevano fornito notizie erronee. Comunque, dal punto di vista artistico, l’identità sessuale è assolutamente irrilevante. Ciò, per la verità, nulla toglie nè aggiunge alla validità di un percorso poetico musicale assolutamente originale, in Italia ed in Europa.

  3. sembra che l’unica roba che ti interessi è il capire se uno è un invertito oppure no. Tra tanti che credevi che fossero ricchioni (Hellvis e Rohm) hai dimenticato proprio l’unico, Pierce. Chissà poi cosa ci sarà da vantarsi….comunque che Douglas Pierce mutuò la divisa dalle S.A. è una fesseria, quella mimetica la trovi anche nei negozi di caccia e soft-air (anche se questo non fa sensazionalismo). Onestamente hai scritto un mare di…

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