Roma, Circolo degli Artisti, 1 ottobre 2010
Il Canada continua a fornire interessanti e variegate proposte musicali: senza scomodare i mostri sacri Neil Young, Joni Mitchell o Robbie Robertson ma semplicemente limitandosi al ventunesimo secolo, dopo Silver Mt. Zion ed Arcade Fire ecco tornare in Italia i Black Mountain da Vancouver, British Columbia.
La band attinge a piene mani alla fonte degli anni settanta, colorando le proprie sonorità di venature hard rock alla Deep Purple (Let Spirits Ride, l’attacco di Tyrants), attraversando la west coast, specialmente in alcuni aspetti della voce femminile che ricordano la Grace Slick dei Jefferson Airplane, oppure in un paio di ballads con ottimi impasti vocali (ad esempio la suggestiva Buried By the Blues) per passare ad atmosfere psichedeliche che non avrebbero di certo sfigurato in Meddle dei Pink Floyd come nell’ipnotica Wucan, certamente uno dei punti più alti dello show. Se poi si aggiunge che alla fine del concerto, raggiunto nel backstage, il chitarrista/cantante/leader Stephen McBean ha dichiarato di avere negli Stooges di Iggy Pop la propria band di riferimento ed ispirazione, ecco che il cerchio sui seventies si chiude definitivamente.
Il gioco dei rimandi alla musica dei propri padri non deve però distogliere la nostra attenzione dal valore intrinseco del repertorio proposto durante la serata: lungi dall’essere un semplice clone, la band ha una sua personalità molto ben definita seppur così variegata e multiforme; i suoni sono vintage al punto giusto, organo e moog accompagnano adeguatamente le Gibson di Stephen, non un virtuoso dello strumento, ma di certo padrone della situazione; il basso Epiphone semiacustico alla Jack Casady di Matt Camirand costituisce un’ottima sezione ritmica insieme alla batteria di Joshua Wells. La selezione dei brani in scaletta presenta principalmente il nuovo album appena uscito intitolato Wilderness Heart, che ha destato ottime reazioni di critica e di pubblico; dal vivo viene però proposto con arrangiamenti molto più vicini alle atmosfere aggressive, a volte grezze e meno ‘arrotondate’ del precedente In the future. E la scelta di questo taglio più selvaggio sembra davvero essere l’arma vincente di questo live. L’unico piccolo neo viene rappresentato dalla staticità e dalla scarsa presenza scenica della cantante Amber Webber, che a dispetto di una voce notevole e ben armonizzata con quella di Stephen, non può di certo essere definita un animale da palcoscenico: nei brani in cui non è impegnata a cantare si aggira un po’ sperduta sul palco senza sapere bene cosa fare, ma la giovane età giustifica abbondantemente l’impaccio e la goffaggine. Dopo la sincopata Rollercoaster, dagli accenni zeppeliniani, e Stormy High, brano di apertura del secondo album, ormai un classico cantato in coro da buona parte del folto pubblico del Circolo, il concerto si chiude con l’unico brano in scaletta tratto dal disco di esordio della band, e cioè l’energica Don’t Run Our Hearts Around; al ritorno sul palco il primo bis è quello più debitore della tradizione cantautorale nordamericana, una languida ballad in falsetto alla Neil Young davvero suggestiva, dall’emblematico titolo di ‘Stay Free’.
Esame di maturità superato a pieni voti dal quintetto canadese, per il quale non è difficile prevedere un successo che travalichi i (comunque non angusti) confini della musica indipendente.
Scaletta:
1. Wilderness Heart
2. Evil Ways
3. Let Spirits Ride
4. Wucan
5. Tyrants
6. Buried By the Blues
7. Angels
8. Queens Will Play
9. Old Fangs
10. Rollercoaster
11. Stormy High
12. Don’t Run Our Hearts Around
Encore:
13. Stay Free
14. Druganaut
Recensione di Fabrizio
Foto di Magister
Block notes di Tonino Merolli