Roma, Ippodromo delle Capannelle, 12 luglio 2016
Dopo il grande successo dello scorso anno riscontrato dagli Slipknot, il metal torna a Capannelle con uno show che vede protagonisti i pilastri del thrash metal targato Usa, ovvero gli Slayer di Kerry King che per la prima volta fanno tappa alla kermesse estiva della capitale. Lo spettacolo viene introdotto dal viking death degli svedesi Amon Amarth, gruppo scandinavo di culto dall’iconografia e dalle tematiche derivanti dalla mitopoiesi nordica, capitanati dal carismatico ed imponente vocalist Johan Hegg che dall’alto della sua stazza intrattiene per circa un’ora il pubblico romano tutt’altro che indifferente alla proposta della band originaria di Tumba. Il cantato in growl di Hegg è potente ed incisivo, con brani come First kill o Raise your horns estrapolati dal recente Jomsviking, disco come al solito coerente rispetto agli standard della band, partendo dalle consuete tematiche che narrano di saghe nordiche celebranti la religione odalista tanto cara al gruppo, infilando nella tracklist pezzi decisamente cupi come As loke falls o Deceiver of the Gods, senza tralasciare Guardians of Asgaard, summa tematica degli ideali degli Amon Amarth che rappresenta il momento maggiormente riuscito dell’intera esibizione. Pochi minuti dopo le 22:00, salgono sul palco gli headliner della serata: le note di Delusions of Saviour introducono gli Slayer, forti del consueto impatto sonoro immediato nella propria violenza, con i riffs fulminei di Kerry King alla chitarra e la vocalità stridula di Tom Araya che al basso sembra aver superato le recenti problematiche alle vertebre. L’apertura del concerto è riservata al recente Repentless, ed il secondo brano è appunto la title track estratta dal decimo lavoro in studio della band di Los Angeles, con sonorità che confermano l’integralismo (ma anche l’integrità) del complesso, esempio di thrash metal genuino e coerente fin all’estremo, vero marchio di fabbrica di coloro che nel recente passato hanno dovuto affrontare, oltre ai sopracitati problemi alla schiena di Araya, la defezione del drummer Dave Lomardo ma soprattutto la precoce scomparsa dello storico chitarrista Jeff Hanneman. I brani si susseguono senza sosta, con Gary Holt che con le sue ritmiche accompagna i soli di King, mentre Paul Bostaph alla batteria non fa assolutamente rimpiangere Lombardo, con rullate imponenti ed una velocità d’esecuzione figlia di un tecnicismo assoluto, necessario per conferire alle sonorità degli Slayer quella ruvidezza che ne caratterizza il sound dai tempi dell’esordio di Show no mercy. Ascoltando in sequenza brani come Disciple, God send death o War ensemble, balza agli occhi (ma ancor di più alle orecchie) la perfetta sincronia del quartetto statunitense, nonostante le cinquanta primavere alle spalle di ognuno dei componenti ed una vena metal volutamente rude che live offre uno spaccato di rara concisione denotando un affiatamento che non perde colpi, facendo risaltare le rasoiate di Kerry King, sulla cui velocità d’esecuzione non albergavano dubbi, ma sorprendendo per l’incredibile pulizia che traspare dagli assolo del chitarrista che poco o nulla concede allo spettacolo, il tutto a beneficio degli aficionados storici degli Slayer che plaudono entusiasti dinanzi alle sincopate plettrate del chitarrista, coadiuvato dalla folta chioma riccioluta di Araya che dal microfono intrattiene gli astanti con l’imponente presenza scenica che gli appartiene. Dopo una dozzina di brani scaricati sul pubblico a ritmiche torrenziali, i bis riservano un paio di perle che da sole varrebbero tutto il concerto: la devastante Raining blood, due minuti e mezzo di adrenalina pura e claustrofobica, pietra d’angolo del genere thrash (e non solo…) tratta dal capolavoro immortale Reign in blood, disco monstre che mise in chiaro le attitudini e le potenzialità degli Slayer trent’anni or sono, a tutt’oggi considerato uno dei lavori più completi e definiti all’interno dell’universo metal nonostante la sua breve durata (meno di mezz’ora!), prima dell’intermezzo di Black magic che prelude alla chiusura di Angel of death, storico e controverso brano ormai dedicato in pianta stabile al compianto Hanneman, come ricorda la gigantografia sul palco alle spalle della band, doveroso omaggio ad uno dei fondatori del gruppo, scomparso nel 2013 ed omaggiato da questo pezzo divenuto nel tempo leggendario e che lo stesso Hanneman compose nel lontano 1983. Nonostante le polemiche stantie che da sempre accompagnano gli Slayer, la chiusura di Angel of death rappresenta la cartina di tornasole che motiva il percorso della band statunitense, ancora vogliosa di composizioni in studio come dimostrato dal recente Repentless, sebbene quest’ultimo lavoro non aggiunga moltissimo a quanto già espresso nello sviluppo del genere thrash ma continui a rappresentare la coerenza estrema degli Slayer, fieri ambasciatori di uno stile rude e lontano dai riff cadenzati che garantiscono comodi passaggi radiofonici in favore di una cultura metal estremamente personale, aliena da compromessi commerciali ed ancora pienamente in grado di emozionare i presenti con la violenza detonativa di brani estrapolati da quel Reign in blood che ha segnato un’epoca. E questa è forse la chiave di volta per comprendere l’importanza degli Slayer all’interno del metal: a prescindere dai pregiudizi sterili, per apprezzarne la proposta prima di giudicarli, urge assolutamente ascoltarli on stage. Ed il messaggio sarà chiaro.
Recensione di Fabrizio ‘82