Ott 152015
 

Joe Jackson: Fast Forward (e.a.r. music/Edel, 2015)

★★★★☆

joejackson_photo_fast forward

A sette anni da Rain, ultimo album di brani originali, ed a più di tre dall’uscita di The Duke, omaggio a Duke Ellington, ecco arrivare Fast Forward, annunciato in estate ed anticipato dal singolo A Little Smile e dalla lunga title track che ci presentavano un Joe Jackson in grande spolvero.

Superato lo shock iniziale nel vedere le foto di copertina che ritraggono JJ riveduto e corretto da pesanti interventi di chirurgia estetica e botox che lo fanno pericolosamente somigliare al fratello un po’ più giovane di Renato Balestra e che rischiavano seriamente di scoraggiare l’ascolto, si può tranquillamente confermare che non bisogna giudicare un quadro dalla cornice.

Opera complessa e poliforme, composta in pratica da quattro EP ideati, arrangiati ed eseguiti in quattro differenti città (New York, Amsterdam, Berlino e New Orleans) con musicisti ed atmosfere diverse che caratterizzano ed influenzano il prodotto dei brani, quattro per ogni location ma accomunati da uno stato di grazia e da una qualità sonora e poetica raggiunta solo nei picchi più alti della lunga discografia dell’artista di Portsmouth. Come in buona parte della discografia di Jackson, difficile imbrigliare la sua musica in classificazioni di generi: Rock, certo, ma anche swing, ballads, music-hall, con soluzioni sempre interessanti ed improvvisi spiazzamenti, depistaggi d’ascolto.

Ricca anche la schiera di grandi musicisti che hanno collaborato nelle diverse session dell’album, a partire dal fedele ed immarcescibile Graham Maby, compagno d’infanzia e di mille avventure sin dall’epoca degli Arm & Legs, la prima versione della Joe Jackson Band di metà anni settanta. Il lirico violino di Regina Carter, già presente nel sopra citato omaggio a Duke Ellington si accompagna all’inconfondibile chitarra di Bill Frisell. Dopo aver menzionato la presenza di Greg Cohen, contrabbassista, tra i tanti, di Tom Waits, John Zorn e Laurie Anderson, passiamo ad una rapida disamina generale dei brani.

La title track apre il CD, evidente testo programmatico nonchè brano più lungo dell’album, basato sull’ipotesi di poter andare avanti veloce per vedere che cosa ci riservi il futuro, ritornando all’epoca dell’oro o quella del peccato, finchè non siamo in grado di capire l’epoca in cui viviamo. Brano riflessivo ed introspettivo, con un lungo e suadente assolo di violino. Il resto del New York EP è fortemente connotato dalla scintillante presenza di una cover, See No Evil, dai grandi Television di Marquee Moon, riscoperto e rielaborato con profondo rigore ma con un’inconfondibile impronta Jacksoniana che ci riporta all’epoca di I’m The Man. Dopo l’intimista King of the City, una Breaking Us in Two ‘ a la Steely Dan ‘, ci spostiamo ad Amsterdam, introdotta dal singolo Little Smile, fresca e solare, ottimista e sbarazzina, una vera iniezione di contagiosa fiducia. Un’arpa ci porta alle celestiali armonie del quattordicenne Mitchell Sink, voce di molti musical di Broadway, che apre il brano Far Away che si lega per atmosfere soffuse e malinconiche alla successiva So You Say. Il brano che contiene il messaggio più forte e urgente si trova però all’interno delle sessions di Berlino, da anni città di adozione di JJ: si tratta di If I Could See Your Face, lancinante brano ispirato ad un triste episodio di cronaca nera legata a problematiche di integrazione razziale avvenuto anni fa in Germania (‘rispetta la mia cultura, facciamo tutti parte della razza umana’), in cui la miscela di atmosfere orientaleggianti e cultura della vecchia Europa (con addirittura uno snippet di organo da JS Bach) rende bene l’idea e l’auspicio di possibile reciproca accettazione ed accoglienza, tema quanto mai centrale nel nostro continente ma più in generale nel nostro tempo. C’è il tempo per un brano in perfetto stile cabarettistico anni ’30 come Good Bye Jonny, altra cover, per arrivare alla quarta parte, quella che ruota attorno a New Orleans, in cui fanno capolino atmosfere più Jazzy (Satellite) o soul (Keep On Dreaming)

Come nella migliore tradizione, (vedi Heart of Ice in Body&Soul e Man in the Street in Big World) a chiudere la raccolta è un brano dal titolo emblematico, Ode To Joy, dai toni antemici ed enfatici a rappresentare i titoli di coda di un’opera sontuosa e raffinata.

In conclusione. un gran disco, per chi scrive tra i migliori del 2015, che attualmente viene presentato in una lunga tournèe negli USA, seguita da poche date in Belgio e Olanda che però faranno da apripista ad un tour europeo nel 2016 che speriamo raggiunga la nostra penisola, pronta ad accogliere nuovamente un Artista con la A maiuscola, sincero, vitale, autentico e generoso, e la sua musica che dal 1979 non smette di emozionare.

 

Recensione di Fabrizio Forno

 

 

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