(La Tempesta Dischi – distribuzione Universal, 2009)
Quando si è pubblicato un album di debutto tanto straordinario, caduto sulla scena rock italiana come un fulmine a ciel sereno, ripetersi è sempre un’impresa complicata, ma mai impossibile. È uscito il 30 ottobre “A Sangue Freddo” de Il Teatro Degli Orrori, registrato presso le prestigiose Officine Meccaniche di Milano (lo studio di proprietà di Mauro Pagani), prodotto dalla piccola etichetta La Tempesta Dischi e distribuito dalla Universal, e seguito del primo superbo album “Dell’Impero Delle Tenebre”.
La prima impressione che dà il nuovo album è che la band abbia voluto enormemente allargare il proprio spettro sonoro espandendo la formula classica chitarra-basso-batteria-voce (rispettivamente Gionata Mirai, Giulio Ragno Favero, Francesco Valente, Pierpaolo Capovilla). Già nel primo brano, la malinconica “Io ti aspetto”, spiccano pianoforte, archi e gli affascinanti bicchieri musicali (ciascuno di diverse dimensioni, e riempiti con diverse quantità d’acqua: si suonano sfiorandone il bordo). Nel corso dell’album si incontrano poi sintetizzatori, trombe e altri strumenti, suonati dai moltissimi ospiti presenti sul disco, che non ci si aspetterebbe di incontrare nelle produzioni de Il Teatro Degli Orrori. Il caso più eclatante, è quello di “Direzioni Diverse”, in cui il duo dei Bloody Beetroots è ospite con una affascinante base elettronica, che rende il pezzo un esperimento interessante, forse non del tutto riuscito, ma sicuramente valido e coraggioso.
Naturalmente non mancano i brani più tradizionalmente rock, e anzi costituiscono il cuore dell’album: posto in esplicito contrasto con la dolcezza triste di “Io ti aspetto”, “Due” è un brano potente e veloce, in cui i riff di Gionata Mirai dominano la scena. La prima vera perla del disco è la title-track “A Sangue Freddo”, di cui è stato prodotto anche un videoclip: è una trasposizione in musica della vicenda del poeta e intellettuale nigeriano Ken Saro-Wiwa, “un eroe dei nostri tempi”, che lottò contro lo sfruttamento del territorio del Delta del Niger da parte delle multinazionali del petrolio, e che per questo fu impiccato dal suo governo sotto pressione della Shell dopo un processo farsa. È un grande brano rock, bellissimo e di grande impatto, un feroce atto d’accusa rivolto ai “ladri in limousine” che “l’hanno ammazzato davanti a tutti”, a cui Capovilla urla in faccia “Pagherete caro, pagherete tutto” (quanto tempo è che non sentiamo qualcuno con tanta credibilità e forza pronunciare questa frase?), e pur trattando un tema così forte e per nulla semplice resta impresso al primo ascolto.
Su questa stessa lunghezza d’onda, grande rock e grandissimi testi, sono anche “Mai dire mai” e “Alt!”: la prima ha un testo surreale e schizofrenico e un bellissimo lavoro di chitarra slide supportato dalla possente sezione ritmica; il secondo è un intelligente racconto ironico (neanche tanto, in realtà) della deriva securitaria che sta vivendo il nostro paese (il primo verso cita Adriano Celentano: “questa è la storia di uno di noi”), in cui Pierpaolo Capovilla interpreta un novello Sergente Hartmann, quello di Full Metal Jacket, sbraitando “Brutta zecca comunista! Adesso sono affari tuoi…”.
Ad un livello ancora superiore stanno “Il Terzo Mondo”, “Padre Nostro” e “Majakovskij”. “Il Terzo Mondo” è un assalto sonoro in piena regola, ed è il brano in cui Gionata Mirai mette in mostra il suo repertorio migliore. Il testo è una potente invettiva: sembra che si parli di luoghi lontani, ma a leggere attentamente affiora un mesto ritratto del nostro paese (“non posso più sopportare i miserabili al potere / solo le mie disperazioni mi fanno sentire ancora vivo”), che lento e inesorabile scivola verso “il terzo mondo”. “Padre Nostro” è esattamente quello che dice il titolo, ovvero una reinterpretazione della preghiera cristiana per eccellenza, che diventa un lamento contro l’apatia e la vigliacca indifferenza imperante (“non soltanto Dio non governa il mondo / ma neppure io posso farci niente / non è compito mio, ci penserà qualcun’ altro”). “Majakovskij” è forse il momento migliore del disco: è una straordinaria rilettura della poesia “All’amato se stesso dedica queste righe l’autore” di Vladimir Majakovskij, in cui Capovilla si fa eccezionale interprete dei complicati versi del poeta russo, e la band sonorizza la poesia assecondandone i momenti di quiete come quelli di tempesta. L’intensa interpretazione di Capovilla è certamente debitrice verso quella che Carmelo Bene fece nel 1974 per la televisione, e testimonia ancora una volta l’amore del cantante per il grande attore salentino.
“È colpa mia” e “La vita è breve” sono invece i momenti meno riusciti del disco: sono brani più semplici e orecchiabili, senz’altro validi, soprattutto la seconda che ha una buona melodia vocale e un testo notevole e in cui si inseriscono bene i synth, ma meno interessanti di quanto si può ascoltare nel resto dell’album.
La chiusura è affidata a “Die Zeit”, un brano mesto, funereo, che narra la fine di una storia d’amore. La musica è un densissimo e cupo stratificarsi di suoni, a cui contribuisce anche Jacopo Battaglia, batterista degli Zu (che hanno già collaborato al completo con Il Teatro Degli Orrori in un bellissimo 10” split), mentre il testo è un oscuro ed etereo lamento. Bellissimo il gioco di parole nel ritornello: “tu non mi ami più, e Dio nemmeno” che all’ascolto può essere interpretato come “tu non mi ami più ed io nemmeno”. Il disco si conclude dopo un magnifico crescendo che sfuma nel ticchettio di un orologio (“die zeit”, in tedesco, vuol dire “il tempo”).
“A Sangue Freddo” è un disco intensissimo, ricco di sfumature e zeppo di citazioni nei testi, estremamente politico, di protesta, forse anche più del suo predecessore, rispetto al quale è anche più variegato dal punto di vista sonoro. Manca una grande ballata, come lo sono “La Canzone di Tom” o “Lezione di Musica” che appaiono nel primo album. Questo aspetto e un paio di brani sotto la media lo rendono di poco inferiore a “Dell’Impero delle Tenebre”, ma la fatidica prova del secondo disco è superata a pieni voti e Il Teatro Degli Orrori entra ormai di diritto fra i grandissimi del rock italiano.
Recensione di Andrea Carletti