Full House: The Very Best Of Madness
2017 BMG/Warner
42 anni di carriera, 42 canzoni. La monumentale raccolta appena uscita celebra una delle band britanniche più importanti tra quelle nate nella seconda metà degli anni settanta del novecento e tuttora in attività. I Madness nascono nel 76 a Camden Town, ovvero in uno dei quartieri insieme a Brixton più importanti del punto di vista del fermento creativo e artistico nella Londra di quell’epoca. Tra gli artefici e maggiori esponenti insieme ai Selecter, ai Beat e agli Specials del cosiddetto Ska Revival, recuperarono e riproposero un genere, lo ska, appunto, musica importata dalla Giamaica da cui nacque il reggae e già a metà anni 60 presa in prestito dai bianchi Mods alle comunità caraibiche presenti nelle periferie delle grandi città britanniche. La raccolta segue un ordine cronologico, quindi nelle prime tracce presenta alcuni dei brani più famosi dei Madness, The Prince, My Girl ma soprattutto lo strumentale One Step Beyond col suo inconfondibile sax, vero inno di una generazione e colonna sonora di un’epoca, quella del primo ministro Margaret Thatcher, caratterizzato da forti scontri sociali, il braccio di ferro coi minatori, la chiusura, la vendita o la delocalizzazione di molte prestigiose fabbriche che avevano fortemente contribuito alla rinascita del paese dalle macerie del secondo dopoguerra, con la conseguente crisi, aumento della disoccupazione e perdita dell’identità e della grandeur eredità dell’ Impero Britannico che fu. Con brani solo apparentemente lievi e spensierati i sette di Camden capitanati dal grande e carismatico Suggs rappresentano il lato scanzonato e più danzereccio di una scena musicale e culturale che negli stessi anni dava origine al punk e alla new-wave. I loro concerti tuttora rappresentano un’autentica e scatenata festa, il repertorio è travolgente e coinvolgente e alcuni ricorderanno una torrida serata nei primi anni ottanta al Tendastrisce in cui tremila teste saltavano e pogavano all’irresistibile ritmo in levare che avrebbe poi portato band italiane come Statuto e in epoca più recente i Bluebeaters di Giuliano Palma a intrapendere lo stesso percorso musicale. Più di quarant’anni, non senza interruzioni: il cantante e leader Suggs ha infatti alternato una non altrettanto fortunata carriera solista ad una più riuscita carriera di attore e star della TV, soprattutto grazie ad una serie di trasmissioni, Suggs Italian Job, in cui ha intrapreso un viaggio in Italia a bordo di una Mini Minor, lontanamente ispirato ai Grand Tour di Goethe e dell’aristocazia europea del sette/ottocento, sempre alla ricerca dell’eccellenza italiana in ambito artistico, culturale e, soprattutto, gastronomico. I brani si susseguono e, nonostante il repertorio negli anni non sia rimasto al livello dei primi album, non è difficile imbattersi in piccoli gioielli, come It Must Be Love oppure Cardiac Arrest, in cui pop, reggae e r’nb si miscelano sapientemente ad una sempre presente ironia di fondo ed uno humore sornione e contagioso, tipicamente british. Per non parlare delle atmosfere lounge di un paio di chicche come le splendide One Better Day o Yesterday’s Men, in perfetto stile Absolute Beginners.
Un’antologia ineccepibile e doverosa, per omaggiare una band troppo sbrigativamente classificata come pop leggero e innocuo, mentre si tratta di un importante riferimento musicale, non troppo distante dal primo Costello, basilare per capire molta musica d’oltremanica degli anni a venire, a partire da Oasis e, soprattutto i grandi Blur di Damon Albarn. E poi provate a stare fermi all’ascolto di Night Boat to Cairo, se ci riuscite!
Recensione di Fabrizio Forno