Non è semplice per un session-man riuscire a far imprimere nella memoria dell’ascoltatore il proprio nome, in particolar modo quando si lavora per un cantante o un musicista solista: l’attenzione del pubblico viene rivolta quasi esclusivamente all’artista principale, e spesso i crediti di un album non vengono presi neanche in considerazione. Quando poi si collabora con un super-gruppo l’impresa diventa ancora più ardua, più che mai se i cognomi coinvolti nel progetto sono quelli di Crosby, Stills, Nash e Young. E se nelle loro composizioni unicamente acustiche i quattro erano (indiscutibilmente) più che autosufficienti, nel momento in cui si dovevano eseguire (sia dal vivo che in studio) brani elettrici come “Wooden Ships”, “Our House” o “Ohio” l’intervento di un basso e una batteria divenivano ovviamente d’obbligo.
Entrambi i ruoli sono stati ricoperti negli anni da uno sparuto e fidato gruppo di persone, due delle quali rispondevano ai nomi del batterista Dallas Taylor e del bassista Tim Drummond. Taylor prese parte alle registrazioni dei due album in studio “Crosby, Stills & Nash” e “Dejà Vú” (il suo nome compare anche sulla copertina, ma probabilmente non sono in molti a averlo memorizzato), mentre Drummond partecipò al mastodontico “Doom Tour” del 1974 dal quale è stato tratto recentissimamente un monumentale album live. I due quindi non hanno mai incrociato le loro strade artistiche, né su un palco, né all’interno di uno studio di registrazione. Ironia della sorte, il solo punto di contatto diretto tra loro appare essere legato alla loro morte, avvenuta ad appena una settimana di distanza l’una dall’altra (Drummond il 10 gennaio, Taylor il 18).
La partecipazione, come già detto, alla registrazione del debutto (sebbene Neil Young non sia, come si sa, presente) e del secondo lavoro di CSNY, basterebbe da sola a giustificare l’importanza storica di Dallas Taylor. Come dimenticare la brevissima rullata formata da due semplici colpi che introducono “Almost Cut My Hair”, o il delicato tempo terzinato (insospettabilmente swingato) che accompagna “Country Girl”? Ma non scordiamo poi il suo contributo dietro le pelli ai debutti solisti sia di Graham Nash sia di Stephen Stills. Un musicista che i due ritenevano evidentemente assai prezioso, da tenersi stretto. Solo David Crosby non lo coinvolse per il suo capolavoro “If I Could Only Remember My Name”, preferendo affidarsi all’intera sessione ritmica dei Grateful Dead.
Ma indubbiamente nell’arco della loro carriera il più attivo (almeno in studio di registrazione) è stato senza ombra di dubbio Tim Drummond. Con il suo basso, nel corso degli anni ha lavorato con James Brown, John Mayall, J. J. Cale e alla cosiddetta “trilogia cristiana” di Bob Dylan (formata da “Slow Train Coming”, “Saved” e “Shot of Love”). Ma è soprattutto la sua duratura collaborazione con Neil Young a renderlo un nome fondamentale all’interno della scena West Coast degli anni 70: il fascino delle note (apparentemente) scarne di “Out On The Weekend” e di tutti gli altri brani contenuti in “Harvest” scaturisce proprio dalle sue mani, così come nella maggior parte dei dischi dell’artista canadese fino al 1992 di “Harvest Moon” (esclusi ovviamente quelli con i Crazy Horse). Capolavori come “On The Beach” (dall’album omonimo), “Lookout Joe” (Tonight’s The Night) o “Pardon My Heart” (Zuma) vedono infatti tutti la sua presenza. E a ben vedere questi tre brani sono raccolti in tre dischi facenti parte di un’altra trilogia oltre a quella già menzionata di Dylan, la “trilogia del dolore”. Un dolore che a quarant’anni di distanza continua a colpire senza sosta Neil Young, che recentemente aveva perso, oltre allo storico collaboratore Ben Keith nel 2010, il bassista Rick Rosas, morto nel novembre del 2014. Ma forse, proprio per questa ragione, il rocker canadese continuerà a urlare a squarciagola durante i suoi concerti, con più convinzione e con tutta la sua forza, “Rock and roll can never die”.
Federico Forleo