Su questa pietra. Storia di un uomo che andava a morire, di Sergio Ramazzotti – Mondadori Strade Blu 2019. Pagg. 168 €17.00
Ho conosciuto Sergio Ramazzotti nel 2013, per un breve viaggio in cui ho avuto l’opportunità di vederlo all’opera come fotoreporter, conservando di quell’esperienza un ottimo ricordo, grazie alla particolare sintonia che si è instaurata tra noi, ma soprattutto grazie allo speciale miscuglio di professionalità, simpatia, umanità ed empatia scaturite in quell’occasione. Conservo ancora gelosamente gli scatti da lui effettuati in quel viaggio e che ha voluto generosamente condividere con me: il suo sguardo fotografico esprime tutta la sua abilità narrativa e la capacità di portarti al centro del luogo che sta descrivendo, qualità che ho poi ritrovato nei due libri da lui scritti che ho divorato a poca distanza l’uno dall’altro, ovvero Vado verso il Capo e Liberi di Morire, letture che mi hanno arricchito, entusiasmato e angosciato come poche altre volte mi era capitato. Da poco è uscito Su questa pietra, il racconto autobiografico di Sergio che si ritrova ad accompagnare in Svizzera una persona che sta andando a morire. Il difficile argomento del fine vita viene in queste pagine affrontato senza tesi precostituite, senza prese di posizione aprioristiche, con tante domande e nessuna risposta, spinto, usando le parole dell’autore, dalla “…necessità di sapere che cosa può spingere un uomo a volersi togliere la vita, di capire in quali abissi di disperazione debba sprofondare un essere umano per arrivare a una decisione tanto estrema”. Ho avuto l’opportunità di porre qualche domanda a Sergio, ritrovando dopo tanto tempo la stessa disponibilità e lo stesso calore trasmesso sei anni fa. Ecco il resoconto di questa nuova interazione.
Nessuna differenza, mi sono sempre sforzato di avvicinarmi a ogni storia che ho narrato – dunque anche a questa – con la massima umiltà e onestà intellettuale, cercando di dosare volta per volta il cinismo e l’empatia, per mantenere tanto l’imprescindibile rispetto nei confronti del protagonista o dei protagonisti, quanto il punto di vista più obiettivo possibile. Se una differenza c’è, forse andrebbe cercata nella mia incapacità, in questa specifica storia, di controbilanciare un eccesso di empatia (la cui origine ancora fatico a spiegarmi) con un’eguale dose di cinismo.
Dormo più serenamente, grazie alla consapevolezza che, dovesse mai la vita divenire insostenibile, saprei a chi telefonare per porvi fine. Intendiamoci, sono profondamente innamorato della vita e adesso come adesso, mentre sono sano, tranquillo e con lo stomaco pieno, la prospettiva di separarmene non mi sfiora nemmeno. Ma sono anche consapevole che l’adesso come adesso potrebbe non durare per sempre.
Certo che sì. Spero soltanto nel buon senso. Questo libro è volutamente pieno di domande, e altrettanto volutamente non propone risposte, soltanto spunti di meditazione. Trovo che esprimere posizioni assolutiste sulla questione del fine vita sia tremendamente arrogante. Nessuno di noi è in grado di prevedere nemmeno per se stesso come reagirebbe di fronte alla prospettiva molto concreta di una brutta morte. Lo dico per esperienza personale, essendomi trovato in più di un’occasione, in zona di conflitto, a dover temere una brutta morte: ogni volta la mia reazione mi ha spiazzato, perché non è mai stata come avrei immaginato.
Immagino che chi si accosta a questo libro esca particolarmente segnato dalla lettura: quali reazioni da parte dei lettori sono state quelle che ti hanno colpito di più?
Quella di chi mi ha scritto di non aver provato alcuna compassione per il protagonista della storia: la morte era ciò che bramava, ha ordito una trama di incredibile complessità per quattro lunghi anni allo scopo di averla, e ora che stava per ottenerla, per soddisfare quella sua brama di morte, perché si sarebbe dovuto provare pietà per lui? Sì, certamente è andata così, ma credo sia impossibile non vedere dietro la figura di quell’uomo l’ombra lunga e cupa di una tremenda solitudine. Ecco, la solitudine è quanto di più spaventoso possa capitarci, e non riesco a rimanere indifferente di fronte a un uomo che sceglie la morte poiché la sua vita è diventata insostenibile a causa della solitudine.
L’occhio del fotografo come si comporta in un ambito così particolare ed insolito, in che modo le tue precedenti esperienze di fotoreporter e scrittore ti sono tornate utili nel costruire questo libro?
L’occhio di un fotoreporter è uno strumento di precisione, capace (mi ripeto) di dosare cinismo ed empatia e al tempo stesso di ragionare per parametri tecnici e, se mi è concesso il termine, artistici. Come tale è un potente ausilio della memoria a lungo termine, che di per sé immagazzina il ricordo di fatti ed esperienze tramutandole in immagini fotografiche. E’ a quelle immagini che ho attinto per scrivere questo libro. In un certo senso, questo, benché non contenga alcuna immagine, è un libro fotografico.
Quali sono i tuoi progetti futuri, tornerai ai reportage o quest’ultima esperienza letteraria ti porterà da qualche altra parte?
Il reportage non l’ho mai abbandonato, né ho alcuna intenzione di farlo. Un’esperienza letteraria, invece, è sempre un’incognita: impossibile immaginare dove ti porterà.
E per me, caro Sergio, sarà sempre un piacere stimolante continuare a seguirti ovunque la tua fotocamera o la tua immaginazione ti porteranno; grazie, e alla prossima!
Intervista di Fabrizio Forno