Skagboys, di Irvine Welsh. Guanda 2012. Pag. 618. Euro 20,00
Il prologo, l’antefatto, la discesa inesorabile nel buco nero del “buco”. Eccoli tornare di nuovo gli Skagboys di Irvine Welsh, racchiusi in queste 618 pagine amare, crude, violente, toccanti ma infine anche divertenti. Prequel del celebre esordio letterario Trainspotting (grazie anche all’ottima trasposizione di Danny Boyle sul grande schermo) rieccoci a Leith, sobborgo popolare di Edimburgo, accompagnati ancora una volta dall’io narrante di Mark Renton, probabilmente il più evoluto del gruppo e circondato dai soliti amici di sempre: Sick Boy il cinico, Begbie il violento, Spud lo sfigato, in una Gran Bretagna anni 80 messa in ginocchio dalla politica Thatcheriana che si abbatte sulla rete sociale come una scure a 360°. Ma per quanto vogliamo trovare un capro espiatorio alla devastazione di un’intera generazione, Welsh è abilissimo nel non fornircene affatto. Infatti il suo punto di vista rimane sempre quello del narratore, senza ergersi mai sul podio dell’accusatore, né tantomeno del moralista, raccontandoci una generazione annoiata e disillusa che abbraccia la fede dell’eroina sovrapponendola a tutto il resto.
Sullo sfondo di lotte sindacali (memorabile il capitolo di apertura in cui Rents, assieme al padre, si reca ad un presidio di minatori che verrà violentemente represso dalle forze dell’ordine), tragedie familiari, rapporti promiscui e brevi excursus politici ben inseriti nel tessuto narrativo di questo voluminoso ma mai noioso romanzo, le vicende dei vari attori si intrecciano e si dipanano per poi incontrarsi nuovamente, generando un racconto corale apparentemente senza trama e con un unico motivo conduttore: la ricerca della dose quotidiana in una spasmodica escalation che raggiunge il suo culmine nelle pagine finali con la rocambolesca incursione dell’allegra brigata di tossici in una fabbrica farmaceutica nell’ultimo disperato tentativo di procurarsi la materia prima della loro ormai sempre più compromessa esistenza. Notevole prova di stile anche la prosa in forma di diario che Welsh mette in piedi durante la permanenza obbligata di Rent boy & Co. presso il centro di recupero, giocando con se stesso (e col lettore) nel simulare brevi ma sinceri rigurgiti di redenzione nel protagonista, immediatamente vanificati dal “fine pena”. Da brivido invece, il didascalico elenco in crescita esponenziale dei ricoveri per AIDS con conseguenti concause (la maggior parte delle quali riconducibili alla tossicodipendenza), che si innesta tra un capitolo e l’altro nella parte finale del romanzo.
L’abilità narrativa di Welsh ci porta per mano attraverso le vicissitudini dei protagonisti che nonostante tutto sono caratterizzati da una fortissima vitalità, seppur tesa all’autodistruzione. Non c’è possibilità di redenzione perché non c’è volontà alcuna di essere redenti. Situazioni estreme ed esasperate al limite dell’immaginabile descritte con linguaggio esuberante ed eccentrico (lo scozzese dialettale è reso benissimo nella traduzione italiana) vengono intervallate da resoconti impietosi riguardo la situazione socio-politica, per poi ripartire con le elucubrazioni mentali dei protagonisti borderline. Sono questi i marchi di fabbrica di tutto quel filone letterario brit-pop di cui Welsh è e rimane uno dei maggiori esponenti. È vero, gli ingredienti dei suoi libri sono sempre gli stessi: sesso, droga e rock and roll. Ma masticati, ingoiati e vomitati in chiave rigorosamente punk.
Recensione di Claudia Giacinti