Rory Gallagher – Il bluesman bianco con la camicia a quadri, di Fabio Rossi, 144pp, eur 14, Chinaski Edizioni
Nel nugolo di pubblicazioni relative ai chitarristi della “golden age” post- sessantottina, risalta sorprendentemente l’assenza di un volume dedicato a colui che della sei corde fece paradigma della propria esistenza: no, non parliamo di Hendrix ovviamente, ma del geniale irlandese Rory Gallagher. Straordinariamente virtuoso, il bluesman bianco ha dapprima esplorato i sentieri scoscesi di un proto hard rock poi detonato nel giro di qualche anno (Led Zeppelin su tutti), partendo dalle produzioni con i suoi Taste, prima di rivelare completamente la propria versatilità musicale nel fruttuoso prosieguo di una carriera solista interrotta purtroppo dalla prematura scomparsa. Ammirato dallo stesso Hendrix, Gallagher ha sfiorato l’orbita dei Rolling Stones, preferendo concentrarsi sulle proprie attitudini scevre da qualsiasi legame commerciale (assenza quasi totale di 45 giri) e percorrendo fino in fondo la propria parabola densa di assolo e riff taglienti che lo hanno (tardivamente) consacrato come uno dei migliori chitarristi del periodo. Fabio Rossi, già ospitato all’interno di Slowcult ai tempi della pubblicazione di Storia del Prog. Quando il rock divenne musica colta, ha pubblicato l’interessante ed approfondito saggio Rory Gallagher- Il bluesman bianco con la camicia a quadri, colmando il vuoto editoriale cui accennavamo poche righe fa, dipingendo un vivido ritratto del chitarrista di Cork ed arricchendo il tutto con foto e testimonianze, riuscendo a sfornare un prodotto adatto sia a coloro che già conoscono il cantautore irlandese che ai neofiti intenzionati a scoprirne le superbe qualità. Slowcult ha rivolto all’autore qualche domanda per saperne di più.
SLOWCULT: Allora Fabio, a tuo parere per quale motivazione un volume su Rory Gallagher non aveva ancora visto la luce?
FABIO ROSSI: Questa è davvero una bella domanda! Ovviamente ti riferisci al nostro malcapitato Paese, dove si pubblicano vagonate di inutili libri sui Pink Floyd o sui Genesis, snobbando gruppi del calibro di Gentle Giant o Traffic, tanto per citarne due a caso. Le case editrici più importanti vogliono andare sul sicuro, per cui nomi come Rory Gallagher o Tommy Bolin che non danno certezze assolute di vendita sono tematiche poco appetibili. Personalmente ho fatto un solo tipo di ragionamento: mi piaceva a dismisura Rory Gallagher ed è per questo che ho deciso di scrivere un libro su di lui; apparirei, però, un bugiardo, se affermassi di non aver considerato il fatto che sarei diventato il primo saggista italiano a farlo! All’estero, comunque, si trovano diversi volumi su Rory che mi sono procurato e che ho pazientemente tradotto al fine di acquisire più materiale possibile per la mia opera. Di certo, Rory non vanta un vasto seguito qui da noi e lo testimonia il fatto che raramente si trovano i 33 giri o i CD dei Taste o della sua carriera solista. Quantomeno a Roma ho constatato sovente questa assurdità.
Sl: Ritieni che la definizione di “bluesman bianco” lo abbia penalizzato a livello di mercato?
F.R.: Assolutamente no, anche Johnny Winter e Gary Moore erano parimenti “bluesman bianchi” e non credo proprio che il colore della pelle li abbia minimamente penalizzati
Sl: Personalmente quale lavoro preferisci e perché?
F. R.: Sarebbe banale citare i tre dischi registrati dal vivo, ovvero Live! In Europe, Irish tour 1974 e Stage Struck, essendo risaputo che Rory sapeva dare il massimo on stage e tutta la sua energia emerge dirompente in quei tre micidiali album. Detto ciò opterei per Photo-Finish del 1978, dove l’artista irlandese vira decisamente verso l’hard-rock. E’ interessante raccontare la genesi di questa perla: Rory si trovava a San Francisco per registrare un nuovo album che si sarebbe dovuto intitolare Torch, ma si fratturò il pollice della mano sinistra. Una sera vide i Sex Pistols e ciò lo indusse a fare varie riflessioni sulla sua fase artistica. “Alla luce dei fatti posso dire che quell’incidente ci voleva proprio! Stavamo registrando cose con tastiere, sezioni di fiati, archi, mi stavo perdendo in una musica non mia. “ Rory non solo impedì la pubblicazione di Torch, ma stravolse la line up della band riportandola ad un trio completato dal fido Gerry Mc Avoy e dal batterista Ted Mc Kenna. Tornato in Europa, eseguì la seconda registrazione dell’album, rilasciato poi ad ottobre con il titolo di Photo-Finish
Sl: Nelle inutili classifiche riguardanti i chitarristi, spesso e volentieri Rory resta confinato nelle retrovie. Preconcetto nei confronti del blues o semplicemente il chitarrista solista è ritenuto a torto unicamente figlio del rock duro e puro?
F. R.: Se consideriamo l’ammirazione che tanti chitarristi hanno avuto di lui (Hendrix, Page, Campbell, Bonamassa, The Edge, Moore, Clapton) appare tutto incredibile. Nel 1972 fu eletto dal Melody Maker come miglior chitarrista, Jagger lo voleva negli Stones e Brian May dei Queen ha affermato senza remore di essere stato ispirato proprio da Rory Gallagher. Nonostante ciò il genio irlandese rimane nell’anonimato, come se fosse un eroe quasi dimenticato.
Sl: Nel libro hai posto l’accento sulla mancanza della cosiddetta “pietra miliare” all’interno della discografia di Gallagher. Da cosa è dipeso a tuo parere?
F. R.: Le cause sono diverse. Innanzi tutto, la sua idiosincrasia verso i 45 giri e i passaggi radiofonici. Aveva, inoltre, troppa fretta nel registrare i suoi album in studio; non si trovava bene in quella dimensione e non vedeva l’ora di finire per tornare sul palco dove si trovava a proprio agio. Ci aggiungerei, infine, che fatta eccezione della formazione dei Taste (la quale era di livello assoluto) nel prosieguo della sua carriera si è attorniato di musicisti privi del necessario carisma, vedi gente come Roger Glover e John Paul Jones. Ritengo che i motivi della mancata realizzazione della famigerata “pietra miliare” possano essere ricercati in quello che ho sopramenzionato.
Intervista di Fabrizio ‘82