Nevicava sangue. Eraldo Baldini. Einaudi, 2013. 256 pag. 18 euro.
Baldini ha cambiato voce, il suo narrare si è fatto più profondo, acuto e attento. La sua scrittura si è affinata e sì, lo posso dire senza temere di essere apologetico, è diventato grande. Per farlo ha scelto tematiche da grande romanzo ottocentesco ed è stato estremamente coraggioso: fallire davanti a grandi riferimenti costringe ad una figura ben peggiore che farlo davanti allo Stephen King a cui è sempre stato superficialmente accostato. Il male, l’oscuro di questo romanzo non viene più dall’esterno, non è più misterioso come in altri testi di Baldini, stavolta tutto il male del mondo è palese, senza maschere: è l’uomo, l’essere umano con le sue pratiche mostruose di potere e di avidità. A partire dal “padrone” che sposta in avanti i confini della sua terra per possederne ancora di più, passando per Napoleone Bonaparte che invade la Russia per avere ancora più gloria e potere, originando una delle più spaventose carneficine della storia per arrivare infine alla selvaggia, impietosa e brutale lotta per la sopravvivenza a cui sono costretti i soldati spinti e abbandonati nell’inferno bianco della Russia invernale. Volendo trovare un neo a questo ottimo romanzo, si può dire che le varie campagne di Russia, da quella qui narrata a quella della seconda guerra mondiale sono state raccontate in numerose occasioni e anche in modo molto convincente, tanto per fare un esempio basti pensare a Rigoni Stern. Questo leggero effetto deja vu , in alcuni passaggi rischia di far percepire il testo come qualcosa di già letto, di già molto conosciuto, ma questa non è certo una colpa di Baldini che anzi, con la scrittura riesce a rivitalizzare immagini e stereotipi.
Il romanzo ha una lingua asciutta, mai corriva. Se non rischiassi di esser frainteso la definirei elegante, di una eleganza sobria ma del tutto personale, non standardizzata e, al contempo, quasi per paradosso, estremamente lirica. Fa piacere leggere romanzi che nella mente dell’autore non siano sempre e soltanto un modo per pagare vita, vacanze e bollette, romanzi che abbiano una struttura linguistica certa, che siano pensati come opere d’arte e non come prodotti da vendere. Da parte mia è presuntuoso immaginare di capire lo spirito con cui si scrive un romanzo, ma credo che in quest’ultimo Baldini abbia voluto dimostrarsi e dimostrarci di essere cresciuto, di avere fatto un grande passo in avanti verso la sua maturità espressiva. Come ho scritto prima, ci mostra, e ne è giustamente orgoglioso, come sia diventato grande. E un autore vero questo lo realizza attraverso la raffinatezza della scrittura, non attraverso vuote dichiarazioni d’intenti nelle interviste ai talk show.
Dopo aver scritto la recensione ci siamo messi in contatto con Baldini e gli abbiamo chiesto se avesse voglia di parlarci brevemente del suo nuovo lavoro e di come lo ha affrontato. Lui è stato molto gentile ed ha subito accettato. Le risposte alle nostre domande le trovate qui di seguito
Tu hai scritto molti testi che ti hanno incollato addosso l’etichetta di “Steven King della Bassa” e qualcuno, non ricordo chi, ti ha addebitato addirittura l’invenzione di un genere, il “gotico rurale” che è poi diventato quasi di uso comune per descrivere i tuoi lavori. Questa sorta di incasellamento per te è stato un peso, una fortuna, una cosa che ti ha aiutato a farti seguire da un pubblico interessato a questo tipo di romanzi, oppure una cosa che non ti ha procurato nessun effetto?
Non mi piacciono molto gli incasellamenti, né le distinzioni troppo rigide tra i generi. In ogni caso, l’accostamento a Stephen King non può che risultarmi lusinghiero, anche se ovviamente assai esagerato, e l’attribuzione a me di una sorta di “invenzione” del “gotico rurale” la ritengo un riconoscimento per avere contribuito a far sì che anche in Italia, come avviene da sempre in altri Paesi, le suggestioni che risiedono nel grande patrimonio della cultura popolare e dell’immaginario collettivo di stampo folklorico abbiano trovato una qualche trasposizione letteraria. Una ventina di anni fa Oreste Del Buono si stupiva che ciò non accadesse, e aveva ragione: si tratta di materiale avvincente che fa parte del nostro DNA culturale e che consente di imbastire storie non solo di mistero, ma del nostro reale vissuto.
Leggendo “Nevicava Sangue” mi è sembrato di capire che tu stessi cercando di scrollarti di dosso queste etichette, questo pregiudizio. E’ una impressione corretta o me lo sono inventato?
In realtà non direi che ci sia stato questo intento. Sono abituato a scrivere la storia che mi si crea in testa e mi affascina, senza mai pormi problemi relativi al “genere”. La voglia di raccontare la partecipazione (drammatica e massiccia) di soldati italiani alle guerre napoleoniche ce l’ho da tempo, fin da quando, da ragazzino, ascoltavo i vecchi del mio paese di campagna narrare vicende e gesta dei loro nonni o bisnonni che si erano trovati a combattere ovunque, anche nella campagna di Russia del 1812. Pochi di loro tornarono, sono spariti da due secoli in quell’inferno bianco e mi dispiaceva che sparisse via via anche la loro memoria.
Al di là dei motivi che ti hanno spinto a farlo, il cambiamento di registro è piuttosto evidente e, secondo il mio modestissimo parere, la tua scrittura ne ha molto giovato. Nello scrivere quest’ultimo romanzo come ti sei trovato? Nel proporre una storia che descrive un realtà è cruda e dolorosissima hai dovuto rivedere anche il tuo approccio alla scrittura?
Ho cercato di curare la scrittura e la lingua in modo particolare, perché sia di quella guerra che di altre combattute negli stessi luoghi (pensiamo alla Seconda Guerra mondiale) già molti altri hanno scritto in maniera eccellente, quindi l’unico modo per tornare sull’argomento era di farlo con uno stile molto personale e convincente, con uno sforzo letterario intenso. Per la prima volta, poi, ho dovuto documentarmi così tanto. Per più di un anno ho letto libri di storia e diari di sopravvissuti, ho studiato carte geografiche, ho cercato insomma di calarmi il più possibile in quella realtà. L’impegno puntiglioso nell’affinare il linguaggio e la sua efficacia ha quindi accompagnato quello resosi necessario per ottenere una fedeltà e una credibilità storiche della narrazione. Al di là di ciò io credo che sia auspicabile, nel percorso di uno scrittore (cioè di chi è al contempo artista e artigiano), la capacità di migliorarsi sempre.
Per finire ti chiedo un consiglio di lettura: un titolo di narrativa “mainstream” ed uno per gli appassionati del genere gotico o horror o come diavolo lo vogliamo chiamare. E soprattutto perché li hai scelti.
Questa è la domanda più difficile del mondo, anche se è in apparenza semplice. Sono un accanito lettore fin da quando ero piccolo, e individuare due titoli fra i tanti è davvero difficile. Indicherò quindi due autori: John Steinbeck, che ho sempre amato molto per le sue doti sia liriche che di impegno sociale, e per la sua viva capacità di ironia; è uno scrittore che oggi è purtroppo poco conosciuto alle nuove generazioni, e andrebbe ritradotto e, diciamo, “riscoperto”. Per la narrativa “di genere” (è riduttivo e improprio, però, metterla così…), io credo che, insieme ad alcuni romanzi poco riusciti, Stephen King abbia prodotto anche testi eccezionali, dove inventiva, facilità di linguaggio, senso del ritmo e tutto il resto raggiungono dimensioni e risultati di assoluta eccellenza. Forse non abbiamo la precisa percezione di quanto la sua fantasia e le sue pagine abbiano influenzato l’immaginario di tutti noi.
recensione ed intervista di Daniele Borghi