Alessandro Robecchi. Questa non è una canzone d’amore
Sellerio, 2013. 432 pag. 15 euro
Robecchi ha alle spalle un lunghissimo curriculum da giornalista satirico e questo, inevitabilmente, si riflette nella sua scrittura rendendola senza dubbio divertente. Spesso, purtroppo, questo non è sufficiente per fare di un testo un buon romanzo: troppa è la differenza tra un articolo pungente e una buona prova di narrativa. Questo è senz’altro un romanzo in cui il divertimento è posto al centro delle intenzioni dell’autore e quest’intenzione, senza dubbio, è stata coronata da successo. Le perplessità (se così si possono chiamare) sorgono per altri motivi. Quel che più fa prendere le distanze, che impedisce al lettore di sentirsi coinvolto, afferrato dalla vicenda, è il parziale distacco che si avverte nella scrittura di Robecchi. A volte si ha la sensazione che prima abbia scritto l’intero romanzo e poi, dove immaginava servisse, ha aggiunto battute, caratterizzato personaggi, inserito commenti… insomma, per farla breve, si percepisce una certa artificiosità. Ovviamente è solo una sensazione, ma quando si comincia a percepire una maniera ben precisa di costruire descrizioni e dialoghi è difficile non lasciarsi condizionare e si tende a leggere con l’occhio molto più attento a certe sfumature che sembrano confermare la sensazione stessa. Robecchi è molto brillante, ma non è che per caso siamo un po’ stanchi di sentir parlar male della televisione commerciale? Ormai è come prendere in giro i politici per il loro aspetto fisico o per le loro attività sessuali e intellettuali. Brunetta è un nano? Berlusconi è un maniaco sessuale? Giovanardi ha il Q.I. di una quaglia con l’insolazione? Sì, e allora? I problemi non sono quelli, il guaio è che sono l’espressione di una considerevole parte di cittadinanza che li vota e sostiene. La tv del pomeriggio, quella che fa del pettegolezzo un arma di distrazione di massa è una “fabbrica di merda”(come la chiama Robecchi)? Sì, e allora? Basta non guardarla. E soprattutto non farla come fa il protagonista che si vede offrire trentamila euro a puntata per continuare a “pettinare” (sempre Robecchi) le storie d’amore che fanno acquistare gli spazi pubblicitari. Anche in questo romanzo, che, come ho già detto, punta su un superficiale divertimento, si continuano a confondere causa ed effetto. Se si vuole davvero essere caustici non potranno mai essere gli effetti ad essere presi di mira, sarà necessario scavare più in profondità.
Oppure lasciar perdere la satira di costume e scrivere d’altro, così è troppo comodo.
Oppure, vista dalla parte del lettore, (e forse sarebbe la cosa più logica) godersi soltanto un po’ di intrattenimento, senza incazzarsi per queste cose come faccio io.
Xialong Qiu. Cyber China
Marsilio, 2014. 320 pag. 18 euro.
Traduzione di Fabio Zucchella.
Con questa saga del commissario Son Kaz Kiè, di cui questo romanzo è l’ottava “puntata”, si può dire che la globalizzazione gialla (riferita al genere letterario, non all’incarnato) abbia raggiunto il suo punto d’arrivo. Per puro spirito di conservazione avevo finora evitato di leggere qualcosa di questa lunga serie, ma l’estate, il mare, l’ombrellone, i viaggi in treno, quelle sciocchezze che tendono a giustificare la lettura di testi poveri, e non ultima per importanza, la scarsa offerta libraria del periodo, mi hanno fatto acquistare e leggere ‘sto volume.
Indovinate qual è la grande passione del commissario capo Son Kaz Kiè? La cucina, naturalmente. Ingozzarsi lo manda in brodo di giuggiole. E il bello è che gli editori non si vergognano neppure di sottolinearlo in quarta di copertina, come fosse una trovata originalissima. Da non crederci.
Per favore, qualcuno scriva un giallo con un commissario inappetente, solo quello lo farebbe apparire geniale. Se dovessi fare un elenco di tutti i commissari che amano mangiare ci vorrebbero sei cartelle interlinea uno. E poi, altra perlaperlissima: l’autore ci vuol far credere che in Cina la corruzione ha la sua origine nel monopartitismo che governa quel paese. Mi domando: una capatina in Italia non sarà il caso di fargliela fare? L’irritazione originata dalla banalità della vicenda (in qualsiasi città, cittadina o paesino italiano saprebbero organizzare di meglio e di più) e dai personaggi tagliati con un’accetta dal filo rovinato, è parzialmente mitigata dall’esplorazione di alcuni aspetti della società e del sottobosco della politica cinese, di come il partito agisca contro i corrotti e quali siano le loro procedure.
Nulla di molto diverso da ciò che accade da noi, da quelle parti hanno soltanto più determinazione nel far finta di non tollerare la corruzione e nel punire i colpevoli in maniera esemplare, in modo che la parte di popolazione meno avveduta abbia l’illusione di vivere in una società giusta.
Noi siamo più avanti, pure di parecchio.
Howard Jacobson. Prendete mia suocera
Bompiani, 214. 448 pag. 19 euro.
Traduzione di Milena Zemira Ciccimarra.
Questo romanzo di Jacobson ha un fascino sottile che conquista pagina dopo pagina, con metodica progressione geometrica. Il fatto più sorprendente è che riesce a farlo senza condurre il lettore all’interno di una trama incalzante, tutt’altro. Jacobson conquista il lettore attraverso una scrittura sottilmente ironica ed un protagonista che, se all’inizio appare come un soggetto lagnoso e abitato da tortuosi e complicatissimi pensieri, strada facendo appare sempre meno ridicolo e autoreferenziale.
Anche in questo romanzo, ormai sembra una moda, il personaggio centrale è uno scrittore. Ma le riflessioni che ne conseguono non sono soltanto autoriferite, sono soprattutto rivolte alla paccottiglia letteraria di questi anni bui , al suo confezionamento e, per chiudere il cerchio, alla mancanza di lettori. Da anni tutto il mondo dell’editoria si lamenta della contrazione delle vendite, delle difficoltà della cultura letteraria a trovare uno spazio, della tv che non da voce alla cultura dei libri e sottrae tempo ai lettori, di internet che ruba lettori, l’inondazione, il terremoto, le cavallette… John Belushi non avrebbe saputo inventare di più e di meglio. Individuare le cause di tutto questo, però, sembra essere molto lontano dalla capacità di chi si lagna. In modo molto indiretto e direi “di sponda”, questo romanzo qualche risposta la fornisce. Come tutte le risposte ad un fenomeno così ampio, articolato e sfaccettato, non possono essere prese per oro colato, ma qualche suggerimento riesce a sussurrarlo. E come sempre accade nei romanzi, un suggerimento veicolato dal flusso delle narrazione e non dal solito esperto che si mette in cattedra, ha molta più forza e credibilità di un intervento ad un convegno dedicato al tema. Jacobson sa quello che scrive, sia per ciò che riguarda la vicenda sia per ciò che riguarda la mancanza dei lettori. E se la storia che narra rischia spesso di venire travolta dai labirintici pensieri del protagonista, tutto ciò che gira intorno al nucleo del narrato la impreziosisce e la rianima con sguardi acuminati sul sistema dell’editoria, sui rapporti tra scrittori, agenti letterari, editori e, buoni ultimi e indifesi, i lettori. Gli “utilizzatori finali”, come direbbe Ghedini. In buona sostanza, “Prendete mia suocera” è un romanzo che narra una vicenda (di desideri, di sesso, di successi e insuccessi editoriali, di tradimenti di amicizie e di amori e di insoliti rapporti familiari e matrimoniali) per parlare d’altro, aggrappandosi al protagonista scrittore e mettendo a nudo la povertà intellettuale di un sistema culturale che ormai non mostra più soltanto la biancheria lisa, ma anche molte inquietanti macchie sulle mutande.
Roberto Bolaño. Un romanzetto lumpen
Adelphi, 2103. 119 pag. 14 euro.
Traduzione di Ilide Carmignani
Capire cosa significasse “lumpen” mi ha portato via parecchio tempo e la cosa peggiore è che ancora non sono sicuro di esserci riuscito appieno. Da quel che ho capito potrebbe avere lo stesso senso di “proletario”, “di borgata” o qualcosa del genere, ma non ne sono del tutto certo. Anche trascurando questo non secondario particolare, sono molte le cose che non si capiscono del romanzetto di Bolaño, la sola cosa fuor d dubbio è che sembra scritto dopo aver ingerito una robusta dose di Valium. Certo, molto probabilmente è una scelta dell’autore, ma il lettore finisce per chiedersi perché si voglia scrivere un romanzo sotto gli effetti di un sedativo e, soprattutto, quali siano le ragioni per leggerlo.
Le risposte potrebbero essere moltissime e anche in contrasto tra loro, ma quel che certamente ne viene fuori è un racconto sfocato nella trama e nei personaggi, ricco di vuoti, dispersioni e con la sola (fastidiosa) costante di percepire il narratore annoiato, approssimativo e distante. Tanto per dirne una: la protagonista ha, quasi quotidianamente, rapporti sessuali con due uomini che le abitano in casa e di cui non sa assolutamente nulla. Ne sa talmente poco che quando di notte uno dei due (non si capisce se con turni prestabiliti o lasciando la rotazione all’impeto del momento) si infila nel suo letto, non sa neppure chi sia dei due. Capisco che questo vorrebbe significare quanto questa ragazza sia indifferente a quanto le accade attorno, il fatto è che mi sembra un tantinello esagerato, forse qualcos’altro avrebbe dato al lettore la stessa impressione ma senza tracimare nel ridicolo. La scelta di Bolano, per tutti i personaggi, è quella di non dire nulla della loro psicologia. Mostra appena qualche fatto, scrive qualche dialogo confuso come chi lo recita, e lascia che il libro vada avanti da sé, apparentemente senza preoccuparsi di indirizzarlo. Mi ripeto, è una scelta come un’altra, ma lascia la netta sensazione di un testo scritto quasi controvoglia, senza alcuna partecipazione e, tantomeno, urgenza. Alcuni critici hanno paragonato questo microromanzo a “Ragazzi di vita” e a ”Una vita violenta” di Pasolini, ma credo che l’equivoco nasca soltanto dall’ambientazione romana e dalla presenza di ragazzi in difficoltà. Con la stessa logica, Roma a parte, si potrebbe dire che anche “Oliver Twist”, “Una stella di nome Henry”, o “Davide Copperfield” abbiano qualcosa in comune a questo testo, ma mi sembrerebbe colpevolmente superficiale e del tutto scorretto. Probabilmente molti lettori apprezzeranno questo tipo di scrittura, io non lo sopporto. Me ne scuso con la buonanima di Bolaño, ma a digerirla proprio non ce la faccio.
Tim Laird. La banda delle casse da morto
Minimum Fax, 2014. 355 pag. 14 euro
Traduzione: Federica Aceto
Ormai da parecchi anni, quando un autore irlandese si affaccia sul mercato internazionale, la prima cosa che viene in mente agli editori è di trovare qualcuno più o meno autorevole che lo accosti a Roddy Doyle o Nick Hornby. Non so se questo sia stato o sia produttivo per le vendite, di certo so che è ridicolo e ricorda vagamente quanto accadde, in musica, nei decenni passati. Dagli anni sessanta in poi, un migliaio di cantautori americani sono stati indicati come il nuovo Dylan. Naturalmente per pomparne la scarna potenzialità e fottere i compratori di musica. Tra l’altro, detto per inciso, questa cosa ha portato sfiga nera a decine e decine di musicisti. Comunque a parte la tristezza e la banalità del lancio pubblicitario, questo romanzo a ben poco a che vedere con quelli di Doyle o Hornby.
“La banda delle casse da morto” è un testo lento, a volte farraginoso, banale e scontato quanto una melodia di Gigi D’Alessio, povero di qualsiasi attrattiva, valore o qualità si voglia attribuire alla letteratura. Quando dopo le prime trenta pagine si capisce di che cosa si tratta (ma io sono lento, magari altri riusciranno a capirlo molto prima) si fatica a leggerlo anche mettendo da parte tutte le aspettative e accoglierlo soltanto come intrattenimento senza pretese.
La trama è banale, situazioni e personaggi sono tra l’indistinto, il bozzettistico e il ritrito, unendo il peggio di tutte queste definizioni. La scrittura non ha nulla che possa farla considerare tale se non che è stampata su un libro, l’insieme di tutti questi elementi è di digestione difficilissima e non è neppure sostenuta da una qualsiasi tensione narrativa. In alcuni passaggi sembra che l’autore si sia sadicamente divertito ad interrompere un abbozzo di azione appena appena incalzante per rompere le balle del lettore con descrizioni noiose, banali e fuori contesto. Se l’ha fatto davvero di proposito vorrei conoscerlo e parlargli per una decina di minuti, avrei molte domande. Non c’è molto altro da aggiungere se non un perentorio invito: lasciatelo in libreria.
Per completezza d’informazione devo aggiungere una cosa: a molti che ne hanno scritto questo “romanzomelma” è piaciuto, quindi è possibile che a non capire nulla sia io.
Rubrica a cura di Daniele Borghi
Bravissimo Daniele!
Le tue recensioni sono indispensabili per separare il grano dal loglio, come si sarebbe detto un tempo. Non cambiare registro e vai avanti con il tuo affilatissimo e dotto bisturi: rendi a noi tutti un servizio fondamentali in questa strana epoca dove i “romanzimelma” -ottima definizione!- trovano sempre più entusiasti estimatori che arrabbiati detrattori. Un vivo abbraccio per le tue sempre acute e sacrosante osservazioni e considerazioni. Grazie!
Renato Bruno
Mi unisco ai ringraziamenti di Renato e aggiungo: grazie per aver inserito i nomi dei traduttori!