Minimum Fax, 2014. 320 pag. 18 Euro Traduzione Martina Testa
Com’era prevedibile e inevitabile, dopo il successo planetario di “Il tempo è un bastardo”, sugli scaffali delle librerie iniziano a germogliare le traduzioni dei romanzi che lo hanno preceduto. D’altro canto il Pulitzer è un colpo di fortuna-bravura-relazioni-potenza della casa editrice (fate voi) che non può non essere messo a frutto, e in fondo credo sia giusto così. Oltretutto, in questi tempi bui, dopo l’abbondante pastura di recensioni elegiache e premi, non soddisfare l’interesse dei lettori equivarrebbe a privarli di qualcosa a cui tengono, non sia mai.
Per mettere subito le cose in chiaro, devo ammetterlo sin dall’inizio: di questo romanzo non ho capito il senso. Di sicuro la scrittura ha i suoi pregi, è acuta e volte sorprendente, ma per tutta la lettura ho avuto la netta sensazione che fosse indirizzata ad un pubblico preciso, forse addirittura soltanto alla critica, come se la Egan non scrivesse guardandosi dentro ma captando le aspettative di un pubblico molto selezionato, snob, elitario. Nella scrittura, come nella struttura e praticamente in ogni riga, non ho potuto fare a meno di avvertire un considerevole distacco, uno strizzare l’occhio allo “strano ma non troppo”, quel tanto che basta ad incuriosire ma senza far storcere la bocca in una smorfia di incredulità, all’estrema attenzione che il lirico non scivolasse nel romantico, al letterario che si fermi un attimo prima di cadere nel formale. Tutto il romanzo sembra la passeggiata di un funambolo su una corda tesa tra la paura di non essere ben recensito e la necessità di dare ai lettori qualcosa a cui far aggrappare il proprio interesse. Ogni pagina sembra il risultato dello sforzo tra il dare e il non dare, di dire qualcosa senza esporsi troppo, come se scrivere non fosse esattamente il contrario. Anche in questo caso, come sempre, si parla di gusti, cosa che non è mai molto intelligente, e anche in questo caso non si sta parlando della capacità di scrittura della Egan che è senz’altro grande, si sta parlando di quel che si vuole ottenere con la scrivendo, i risultati da riflettere nello specchio del lettore. Quindi, al di là delle preferenze personali, l’importante è sapere che se si vuole leggere qualcosa di sanguigno, corposo, ben definito, coinvolgente e avvincente… è meglio lasciare questo romanzo in libreria. Se invece si apprezzano le atmosfere al limite del surreale, con personaggi non troppo delineati e vicende che, per scrittura e sostanza, non hanno un forte ancoraggio con la realtà, questo romanzo potrà piacere.
Dianella Bardelli. Il bardo psichedelico di Neal.
Volo Libero Edizioni, 2012. 112 pag. 10 euro
L’autrice di questo testo ha avuto davvero molto coraggio. Pensare che più di cento pagine di visioni-delirio pre morte scritte “a la Kerouac”, e cioè in una sorta di flusso di (in)coscienza possano catturare e trattenere il lettore è più che un atto di coraggio, è un’idea che accarezza la temerarietà. E’ un peccato perché Bardelli sa scrivere, sa dosare e ha il senso della frase, ma è proprio la struttura anzi, la non struttura del testo che impedisce a quest’ultimo di reggersi in piedi. Non so se l’autrice si sia interrogata sugli argomenti di cui sto scrivendo, di certo so che, nel leggere avevo continuamente la speranza di incontrare qualcosa di solido, qualsiasi cosa mi consentisse di fare il “punto nave” e continuare dopo aver ritrovato l’orientamento. Purtroppo non è accaduto e sono rimasto in balia del delirio di Neal Cassidy senza mai riuscire ad intravedere una stella. Ho avvertito la stessa sensazione che provo quando persone che non figurano nella copertina e nell’indice della mia vita mi raccontano i loro sogni e le emozioni che hanno loro provocato. So bene che questo tipo di scrittura ha capiscuola illustri e geniali, ma l’operazione, proprio perché portata a termine molti anni dopo la pubblicazione dei precursori di questo approccio, risulta anacronistica, fuori tempo massimo. Se nei precursori si poteva (e doveva) apprezzare il tentativo di arrivare ad una nuova forma di narrativa, in questo caso ciò che si è costretti a notare è una forma di ripetizione di quei tentativi ormai passati alla storia della letteratura.
La scrittura offre da sempre la possibilità di esplorare mondi che non possono essere mostrati, di andare nella profondità dell’essere umano come a nessuna altra arte è concesso, ma nel caso de “Il brado psichedelico di Neal” credo si sia esagerato e si sia arrivati ad esplorare un panorama che non molti hanno voglia di osservare e ammirare. Come ho già scritto è un peccato perché l’autrice sa scrivere e descrivere, se riuscisse a trovare un filo narrativo più robusto e resistente potrebbe avere buoni risultati.
Bompiani, 2014. 348 pag. 18.50 Euro Traduzione Marco Prosperi.
Chi conosce il Cronenberg regista non farà alcuno sforzo nel riconoscerlo tra le pagine di questo romanzo, nel testo si incontrano alcuni brani che sembrano didascalie di scene di suoi vecchi film. Nello scrivere questo, in particolare, mi torna alla mente un passaggio in cui descrive il corredo di strumenti chirurgici che sembra la versione in narrativa di una scena di “Inseparabili”, ma non è soltanto questa facile costatazione a suggerire e sottolineare le notevolissime somiglianze. L’aspetto che più notevolmente fa somigliare il Cronenberg regista al Cronenberg scrittore è lo stato d’animo che vuole indurre, questo è evidente sia nelle tematiche che nel modo di affrontarle. I “marchi di fabbrica” sono identici: ossessioni e atmosfere plumbee fortemente inquietanti. Ovviamente, essendo diverso il mezzo espressivo, quelle che nei film erano suggestioni per immagini, con la loro velocità e potere quasi subliminale, nel romanzo si trasformano in descrizioni, a volte ridondanti e fin troppo dettagliate.
Non ho lo stomaco debole, ma posso assicurare che alcuni passaggi del romanzo hanno provato a rivoltarmelo e il sommarsi di questo tipo di brani, facendo capolino anche quando non sembrano necessari, lasciano la netta impressione di un tentativo fine a sé stesso di turbare, scandalizzare e anche di schifare. Cronenberg è abilissimo a giustificare, motivare e circoscrivere questi passaggi, occultandoli dietro paraventi o fondali filosofici, tecnologici, politici e psicologici, ma mi sembra che non ci sia completamente riuscito, tanto è vero che ho avuto il dubbio che il processo fosse stato esattamente contrario: partorire situazioni, fatti, rapporti e personaggi di digestione particolarmente difficile per poi vestirli con gli abiti di una intellettualità appiccicaticcia. E’ chiaro che la mia interpretazione può essere sbagliata, ma già soltanto pensando al titolo, al tipo di impatto emotivo che può suscitare, non credo di essere completamente fuori strada. Come sempre non accenno alla trama, ma in questo caso, anche volendolo fare, non saprei davvero da che parte cominciare perché è talmente complessa e inzeppata di tutto e il contrario di tutto da essere impossibile da riassumere. Mi sarebbe davvero piaciuto leggerne la sinossi, chissà se a Cronenberg gli editori l’hanno chiesta.
Joe R. Lansdale. Hap & Leonard. Einaudi, 2014. 752 pag. 18 euro
Una stagione selvaggia (1990). Einaudi, 2006. 196 pag. 12 euro. Traduzione. Costanza Prinetti.
Mucho Mojo (1994) Einaudi 2006. 292 pag. 13 euro. Traduzione Vittorio Curtoni.
Il mambo degli orsi (1995) Einaudi 2001. 306 pag. 13 euro. Traduzione Stefano Massaro.
Joe Lansdale è senza dubbio uno dei miei scrittori preferiti e la cosiddetta saga di quei due disgraziati che rispondono al nome di Hap Collins e Leonard Pine, per quanto le serie mi procurino una lieve allergia, è ciò che di lui apprezzo particolarmente. Per poterne parlare aspettavo che uscisse una nuova “puntata”, ma visto che Lansdale ce la sta facendo sospirare, ho approfittato della pubblicazione di un libro che raccoglie i primi tre romanzi della serie. Ho riletto i miei vecchi volumetti e così, oltre che a trarne piacere come fosse stata la prima volta, ho ricordi più vivi e posso scriverne con maggiore esattezza. E’ impressionante notare come in questi primi tre romanzi della serie, probabilmente i migliori, le tematiche affrontate attraverso quelli che potrebbero sembrare moderni libri d’avventura, quasi dei western rivisitati in chiave contemporanea, abbiano gradissimo spessore. Con l’uso di un vocabolario basico, ruvido, a volte esplicito al limite del turpe, poggiandosi su vicende e personaggi che per quanto improbabili sono perfettamente credibili, Lansdale ci parla di ideali perduti, dell’ossessione per il denaro, di omosessualità e omofobia, di politica, di amori etero e omosessuali, della manipolazione attraverso i sentimenti, di razzismo e di molti altri temi tipici della narrativa americana come la violenza, la vendetta e l’uso scriteriato delle armi. Tutto questo con la semplicità dei grandi, senza mai farsi sfiorare dall’idea di mettersi in cattedra o di sfogliare il dizionario dei sinonimi e contrari. E’ esattamente questo quello che apprezzo maggiormente di questo autore: la capacità di affrontare tematiche a dir poco complesse con una estrema semplificazione del vocabolario e una verve comica irresistibile, con dialoghi che scoppiano sulla pagina come file di petardi e situazioni che precipitano come frane repentine. Lansdale è un autore che fa del politicamente scorretto la sua arma più affilata, del turpiloquio una raffinata forma d’arte, rendendo il “bello scrivere” uno strumento antico e schifoso che solo i poveri di mente possono ancora usare. La sua inconfondibile voce e il suo linguaggio dissacrante sono maglio da calare pesantemente su tutto quanto puzzi di luogo comune. E tutto questo con esiti più concreti, ficcanti e, cosa non trascurabile, divertenti di moltissimi altri autori che si accingono a discettare di queste tematiche in punta di coltello e forchetta. Lansdale no, non ci pensa neppure, lui non vuole e non sa usare le posate come galateo suggerirebbe, usa le mani per impastare e dare forma a “letteratura-cibo” priva di adulterazioni di cui si ha sempre più bisogno. Senza dubbio uno dei pochi grandissimi rimasti in circolazione
Federico Baccomo Duchesne. Peep Show
Marsilio, 2014. 366 pag. 18.50 euro
Da qualche tempo narrativa e cinema si stanno occupando dei reduci dei cosiddetti reality show o comunque, in modo più o meno profondo, di quel che accade dietro e dopo le telecamere di questi misfatti televisivi. Qualche mese fa ho scritto di “Questa non è una canzone d’amore”, ma quel romanzo e questo di Baccomo sono soltanto gli ultimi esempi. Di certo, se trattata senza superficialità e senza inciampare in luoghi comuni, è una tematica molto interessante, ma è altrettanto vero che dal dopoguerra, prima con gli attori “presi dalla strada” del neorealismo, poi con il cantantucci degli anni sessanta e infine con i microdivetti delle cosiddette TV private, ciclicamente, l’attenzione si è posata su tutti quegli esseri umani che hanno goduto di un periodo di celebrità e che sono poi spariti nell’anonimato, quindi non si può certo dire che sia una novità. Inevitabilmente le dinamiche psicologiche finiscono per somigliarsi, e questo non è un bene per il lettore. La sola differenza è che le persone rese famose da programmi come il “Grande Fratello”, almeno nel periodo iniziale della loro popolarità, non hanno dovuto mostrare di possedere alcun talento, la loro notorietà era, è e sarà, di per sé un valore assoluto. Mi rendo conto che trattare un simile argomento porterebbe molto lontano, ma sono costretto ad introdurlo perché il protagonista di questo romanzo è, appunto, il vincitore di una edizione del “Grande Fratello” ed è da lì in poi, scemata l’ondata di interesse, che nascono tutti i suoi guai.
Cosa può fare un soggetto del genere quando i riflettori si spengono se non spegnersi a sua volta? E infatti, ciò che nel romanzo riguarda strettamente l’ascesa e la caduta di una simile meteora, non hanno molto di nuovo da raccontare, le parti più interessanti del testo riguardano tutto il resto, tutto quel che potrebbe accadere ad un essere umano non segnato da quell’esperienza. In fondo per essere disperati in questo periodo non occorre certo essere un ex-famoso, basta vivere la perdita del lavoro o il fallimento della propria attività. I passaggi più interessanti sono quelli in cui non si ha alcuna difficoltà a sovrapporre le difficoltà del protagonista a quelle di chiunque abbia perduto un lavoro e arranchi nella sua ricerca. Sbattersi in giro per stanare un’occupazione non è certo prerogativa di un ex famoso, e questo spinge a solidarizzare maggiormente con il personaggio centrale, anche se non può mancare un certo senso di fastidio per il denaro buttato nel cesso dei momenti di gloria. Sicuramente le parti più originali e di conseguenza più divertenti del romanzo sono gli incontri/dialoghi del protagonista quando, per sbarcare il lunario, si improvvisa conducente di limousine. I dialoghi tra autista personaggi famosi, che si lasciano andare come se l’autista non fosse veramente un essere umano e svelando le parti meno nobili di sé, sono certamente la parte migliore del romanzo. Laura Pausini, Roberto Benigni, Barbara D’Urso, Rosy Bindi e Tiziano Ferro, probabilmente a loro insaputa, fanno delle comparsate tanto strambe quanto godibili, da non perdere. Anche in relazione a queste irruzioni, ma non è il solo caso, si nota un altro pregio del romanzo: il montaggio serrato. Infatti l’autore non perde tempo a raccordare fasi e scene, ma ci lancia dentro all’azione lasciandoci piacevolmente spaesati per qualche riga, concedendoci così il piacere di riorientarci in breve tempo e riassestarci nello scorrere delle pagine.
recensioni di Daniele Borghi