Jo Nesbo. Polizia Einaudi, 2013. 648 pag. 21 euro
Nesbo è un solido scrittore di romanzi giallo-noir. A dar retta alla copertina di questo romanzo ha venduto 25 milioni di copie e, tra i tanti altri che ne vendono milioni senza che se ne riesca a comprendere il motivo, lui ha dalla sua parte una robustezza di plot e di scrittura che non ha nulla da invidiare ai mostri sacri dello stesso genere di romanzi. Si può discutere all’infinito se i gialli siano da considerare letteratura o qualcos’altro, ma non credo si potrà mai ad arrivare ad una conclusione certa, i distinguo sarebbero numerosissimi e non è cero questo il “luogo” dove disquisire. In questo suo ultimo lavoro, Nesbo non esita a schierare di nuovo in campo il suo protagonista preferito, direi quasi storico, quell’Harry Hole a cui ha fatto vivere già molte avventure ai limiti del credibile… e anche un pelino oltre.
Dispiace che un autore così dotato, capace di creare suspence, di non indulgere in analisi psicologiche dozzinali o campate in aria, in possesso di una scrittura asciutta che non “sbrodola” mai, che riesce sempre a articolare intrecci tanto complessi quanto lucidi, che sa come manovrare le emozioni del lettore e tenerlo inchiodato alla pagina, si autolimiti nello scrivere quasi sempre e soltanto di omicidi seriali e del loro problematico cacciatore, il sopracitato Harry Hole. Nella sua penultima uscita (“Il cacciatore di teste” 2013, Einaudi) Nesbo si era allontanato dalla serialità con una vicenda che aveva fatto sperare in una svolta, in un cambiamento che potesse aprire nuove piste narrative. In quel romanzo, anche se con una parte finale in cui si faticava a immaginare anche il più scatenato Bruce Willis al massimo della forma, Nesbo aveva dato prova di sapersi muovere anche al di fuori dei consueti schemi… e invece ora ce lo ritroviamo di nuovo a seguire le vicende di Harry Hole, delle sue ossessioni che ormai conosciamo a memoria, del solito serial killer iperpsicopatico, dei giochini con cui vuole farci credere di aver ammazzato la sua gallina dalle uova d’oro ecc. ecc.. Peccato.
Un elemento molto sgradevole di quest’ultimo romanzo è la presunzione dell’autore nel dare per scontata la conoscenza (e la memoria) di tutta la serie da parte del lettore. Trasportando di peso personaggi e situazioni dai precedenti “episodi”, l’autore procura un senso di fastidio a chi non li ha letti (o chi, come me, li ha dimenticati) e infligge la sensazione di essere entrato al cinema con venti minuti di ritardo.
In sintesi, pur dovendo ammettere l’innegabile talento, si ha l’impressione che Nesbo si trastulli sempre con gli stessi giocattoli, un po’ per pigrizia e un po’ perché è certo che con quelli vincerà sempre, come la pubblicità di quelli a cui piace vincere facile.
Claudio Magris. Segreti e no. Bompiani, 2014. 64 pag. 7 euro
Questo librino di Magris è un affare così smilzo che la recensione rischia di esser più lunga del testo da recensire. Non ci sarebbe nulla di male… se fosse un distillato di sapienza, saggezza e profondità o poesia. Quanti ettolitri d’inchiostro sono stati versati su un solo verso come, ad esempio, “M’illumino d’immenso”?
Purtroppo dubito fortemente che questo libretto possa far spendere altrettante parole. Pur prestando molta attenzione a quello che stavo leggendo, non sono riuscito a cogliere la ragione per cui un testo simile, che per estensione poteva trovare posto in una doppia pagina di quotidiano, abbia meritato la pubblicazione in “volume”. Le 64 pagine, considerando che il testo ne occupa almeno una dozzina di meno e il carattere usato farà felici presbiti e ipovedenti, sono una robustissima presa in giro. E il motivo per cui debba costare 7 euro è ancora più oscuro. Come si è soliti dire in questi casi: misteri dell’editoria. Che poi molto misteriosi non sono: probabilmente si è voluto cavare un po’ di sangue da una rapa spendendo un nome famoso ed intellettualmente altisonante.
E’ possibile, anzi, probabile, che io sia un lettore “basic”, poco incline ad appassionarsi a questo tipo di pubblicazioni, ma in tutta sincerità e senza desiderio di polemica, mi chiedo cosa si possa trovare di interessante in una cosa del genere. Ho scritto “cosa” perché mi manca persino la parola giusta per nominare questo scherzetto che ci ha fatto la Bompiani. In tutto il testo non ho trovato neppure un’idea interessante, uno spiraglio di luce su una tematica affascinante come il mistero. Soltanto un lungo elenco di banalità alternate a citazioni più o meno dotte che sembravano appiccicate a forza, con la stessa profondità che avrebbe avuto un maturando alle prese con la tesina di maturità. Mi farebbe davvero molto piacere se qualcuno avesse voglia di contraddirmi e mi volesse spiegare dove risiede il valore di questo testo. Io, e me ne dispiaccio davvero, anche sforzandomi non riesco a trovare una piccolissima ragione per consigliarne la lettura.
Marco Baliani. L’occasione. Rizzoli, 2013. 208 pag. 18 euro
Baliani, con questo romanzo, ha dimostrato un gran coraggio. Ha affrontato senza paura delle tematiche così imponenti che molti altri scrittori avrebbero volentieri pavidamente evitato. Alcune, tra l’altro, oltre ad avere un “mole” smisurata, sono di grande delicatezza. L’impatto della lotta armata sulla vita delle persone, ad esempio, è forse il più spinoso e sdrucciolevole, ma molti altri sono i temi che l’autore evita di trascurare. La tossicodipendenza, la perdita di una persona molto cara, la convivenza con rimpianti e rimorsi, l’assenza della figura paterna, l’impossibilità di arrivare ad una verità che dia finalmente un po’ di pace e le verità nascoste sono argomenti che già da soli rischiano di scoppiare in mano ad un autore, figurarsi quando si cerca di miscelarli. Per fortuna dell’autore e dei lettori, la detonazione non avviene e almeno per quattro quinti il romanzo tiene benissimo la rotta che ha deciso di seguire. Fedele alla regola anglosassone di “mostrare e non spiegare”, Baliani segue i suoi personaggi e li riprende con freddezza, senza scivolare nel retorico o nel già scritto/detto, alternando sulle pagine scene in cui i due protagonisti, una madre e un figlio, vanno alla ricerca di una verità oggettiva che non può esistere perché ognuno ne ha una propria.
Proprio per questo ovvio motivo il romanzo tende lievemente a sfarinarsi nel finale: se per tutto il romanzo i protagonisti cercano qualcosa che non possono veramente trovare, il finale è inevitabilmente un anticlimax. In questo caso lo si attende rassegnati perché non può andare che in quel modo, si prova a godere dell’asciuttezza del testo e a non pensare alla “storia”, ma è comunque un piccolo anticlimax. In sintesi si può dire che “L’occasione” sia una prova del tutto riuscita, ma rimane la sensazione che se Baliani fosse stato meno “spericolato” e avesse cercato di limitare il suo sguardo focalizzandosi su un numero inferiore di tematiche sarebbe riuscito a fare ancora meglio.
Antonio Pennacchi. Storia di Karel. Bompiani, 2013. 352 pag. 18,50 euro.
Non sono un conoscitore dell’opera di Pennacchi. Ho faticato molto a finire “Canale Mussolini” e il Pennacchi personaggio pubblico, o almeno come lo dipingono e riprendono i mezzi di comunicazione, non mi hai mai fatto molta simpatia. Quasi per sfidare i miei stessi pregiudizi, atteggiamento che nel caso di Piccolo (vedi “Macchie d’Inchiostro” di febbraio) aveva dato insperati frutti, ho deciso di affrontarlo con mente libera. Dopo averlo letto devo ancora capire se ho fatto una sciocchezza oppure no. Sono talmente tanti gli scrittori (tipicamente di fantascienza e non) che nel lungo percorso della letteratura hanno immaginato una diversa società in un luogo diverso dal nostro pianeta, che soltanto per compilarne l’elenco occuperei molte pagine. E da qui nasce la mia domanda: ne occorreva un altro? Non lo so, sicuramente i romanzi non “occorrono” mai, eppure decidere di ripercorrere sentieri così già strabattuti, dovrebbe essere sintomo di una presunzione di originalità quasi rivoluzionaria, altrimenti perché farlo? In questo caso, tutta questa singolarità, di temi e di lingua, non sono riuscito a notarla. Soltanto, a sprazzi, qualche soffio di ironia, che quando è troppo ammiccante irrita notevolmente, può far pensare ad un tentativo di distacco dagli illustri predecessori, ma è poco più di nulla. Nella struttura c’è qualcosa di non banale soltanto nella prima parte, quando Pennacchi dedica una dozzina di microcapitoli alla descrizione di (appunto) una dozzina di personaggi. Sono capitoli brevi che hanno una loro compiutezza e godibilità anche presi singolarmente, senza necessità di inserimento in una struttura narrativa, come fossero dei brevi racconti. E’ nelle parti successive che il testo si fa stanco, impostato com’è alla ricerca della convalida di una tesi (ve la risparmio per pietà) che è di facilissima dimostrazione perché è lo scrittore a decidere cosa fanno, dicono, agiscono, vivono e muoiono i personaggi. Secondo il mio personalissimo modo di vedere la narrativa, un atteggiamento simile è sciocco nella stessa maniera in cui sarebbe sciocco un Dio Onnipotente che si vanti di fare sei al superenalotto tre volte alla settimana.
Per riassumere: “Storia di Karel” è un romanzo che non risulta sgradevole ma che ha l’imperdonabile peccato originale di essere prevedibile e che, a tratti, lascia che la voce del Pennacchi personaggio sovrasti la voce del Pennacchi narratore. Da qui il mio timore: è possibile che l’ego di questo scrittore stia esondando. Dopo la candidatura di Pennacchi a sindaco di Latina e la candidatura di Michela Murgia a presidente della regione Sardegna inizio ad aver timore degli scrittori dalla personalità esuberante… Abbiamo evitato per un soffio Baricco ministro, a quando Moccia candidato sindaco di Roma?
Massimo Carlotto. Il mondo non mi deve nulla. Edizioni E/O, 2014. Pag. 108. 9.50 euro
Come forse qualcuno ricorderà, in una recensione di qualche tempo fa (“Alla fine di un giorno noioso”. E/O, 2011) mi ero lanciato in una apologia di Carlotto definendolo il migliore scrittore italiano di noir. A quel romanzo ne sono succeduti altri che hanno iniziato a far vacillare la mia convinzione. Il ciclo delle “Vendicatrici” ad esempio, è andato scemando di volume in volume, perdendo ritmo e consistenza ed ora, questo brevissimo romanzo ha dato un ulteriore scossone alla mia certezza. Eppure i presupposti per farne un testo interessante c’erano tutti, a partire dallo spunto narrativo che potrete trovare sulla quarta e ovunque in rete. In Carlotto ho sempre ammirato la capacità di stare addosso alla storia senza la minima tregua, azzannandola fin dall’inizio e non mollando la presa fino all’ultima riga, senza quelle chiose da “Desperate Housewife” o quelle tirate moraleggianti/esistenziali che rendono indigesto anche il migliore dei romanzi o divagazioni che servono soltanto a far notare quanto lo scrittore si sia ben informato sull’argomento che ha affrontato.
E invece, in questo testo, Carlotto mischia le sue solite carte e fa un nuovo gioco. Scivola sull’esistenziale spicciolo senza aver “apparecchiato” un plot che lo consenta. La protagonista femminile parla come un manuale di auto-aiuto miscelato con uno di aforismi, il protagonista maschile sembra uno appena uscito dal cottolengo e la moglie di quest’ultimo, che compare brevemente ma è una presenza decisiva, è il solito clichè della donnetta rompicoglioni attaccata al denaro come una patella allo scoglio. Alla fine della lettura, peraltro non sgradevole, la sensazione è quella di avere assistito allo spettacolo teatrale di una filodrammatica di provincia, una cosa che sta in piedi con molto scotch e un po’ di colla. Per concludere vorrei rivolgere una preghiera a Massimo Carlotto: per favore, torna in te, facci stare attaccati alla pagina come facevi un tempo, di questi “divertimenti d’autore” non sappiamo che farcene. Quelli che si devono divertire sono i lettori.
A.M. Homes. Musica per un incendio (Feltrinelli, 2011) Feltrinelli Economica, 2014. 383 pag. 10 euro.
Leggere i romanzi di Homes è sempre un grande piacere. Volendo si potrebbe eccepire che il suo argomento è sostanzialmente sempre identico… ma anche Bolt fa solo i 100 e i 200 eppure vederlo correre è sempre una gioia per gli occhi. Il talento di questa scrittrice è pressocchè infinito e lavorando sui dettagli, a loro volta praticamente infiniti, la tematica di fondo viene sospinta quasi in secondo piano, costretta a perdere d’importanza a causa della grandissima capacità di approfondirla. Anche se la tematica di base si ripete, il valore assoluto dei testi non ne risente perché la potenza e la sensibilità di questa autrice sono tali da neutralizzarli, renderli “belli e nuovi” ogni volta. Quante volte abbiamo visto foto di vecchi sdentati o esseri umani deformi e non abbiamo potuto fare a meno di rimanere estasiati dalla loro rappresentazione, da come ci venivano messi davanti ai nostri occhi? Per Homes accade la stessa cosa. I suoi personaggi sono sgradevolmente squilibrati, sono persone che non si vorrebbero mai avere come amici, false, inaffidabili, sostanzialmente malate di mente ed egoiste. Come cantava Guccini hanno una vita “costretta come dita dei piedi”, sono sempre intenti ad inseguire affannosamente un idea di sé stessi che è esattamente quella che vorrebbero dare e che non ha nulla a che vedere con quello che sono, in un balletto grottesco e dai difficilissimi passi. In questo romanzo, precedente a “Che dio ci perdoni”, c’è un approccio lievemente diverso alla disperazione comune alla quasi totalità dei personaggi. Tutto o quasi viene espresso attraverso i dialoghi che formano la gran parte del testo e quasi tutto ciò che non è dialogo è la descrizione del disperato tentativo di sentirsi vivi attraverso i rapporti sessuali, cercati, inseguiti e condotti in una condizione di confusione stordente, senza un vero desiderio sessuale ma soltanto con il desiderio di “qualcosa” che avvicini alla sensazione di essere vivi.
Non volendo rivelare il finale è difficile dare un senso compiuto a ciò che sto raccontando, ma posso senz’altro dire che è un finale interessantissimo, che simbolicamente quasi si contraddice al suo interno e che lascia stupiti e ammirati proprio per la sua capacità di lanciare contemporaneamente più suggestioni. Era evidente che da Homes non ci si poteva aspettare un happy ending da commedia americana, ma l’articolazione e i molteplici rimbalzi simbolici del finale sono senza alcun dubbio il segnale di una intelligenza narrativa di classe superiore.
recensioni di Daniele Borghi