Grazia Verasani. Mare d’inverno Giunti, 2014. 176 pag. 14 euro
Non è impresa facile trovare qualcosa da dire su questo lavoro della Verasani… e temo la responsabilità non sia soltanto mia. Sono davvero pochi i tasti che l’autrice tocca con questo testo e, di conseguenza, la musica del romanzo è veramente povera.
Nella prime trenta/quaranta pagine, fino a che la narrazione si adopera a delineare la situazione, a introdurre i personaggi e a illustrarne le alchimie, la lettura viene alimentata dalla possibilità di sviluppi successivi, dalla speranza che accada qualcosa che sparigli, che butti all’aria il tavolo con tutte le carte sopra. Purtroppo questo non accade: le successive pagine sono una sorta di vago approfondimento per scenette di quanto già detto e ripetuto in fase di apertura, come se narrare di avvenimenti che confermino le descrizioni dei personaggi fosse una sorta di progresso narrativo, di sviluppo. Se dovessi battezzare una cosa del genere la definirei una rimasticatura, ma ad altri la cosa potrà sembrare rassicurante e piacevole.
Si spera fino alla fine che almeno una delle tre donne protagoniste del romanzo si ribelli alla maschera che l’autrice le ha fatto indossare fin dall’inizio, che qualcosa venga a turbare l’equilibrio di una situazione stagnante, ma le speranze sono vanificate fino all’ultima pagina. Non so che tipo di operazione volesse fare l’autrice. Forse non ho capito lo spirito e proprio quello che voleva ottenere era di traferire al lettore questa sorta di immutabilità nei caratteri e nei comportamenti di persone arrivate intorno ai cinquant’anni, suggerire l’idea che come si è quell’età si rimarrà fino alla fine, ripetendo gli stessi errori e le stesse stupidaggini, ma se anche questo fosse stato l’intento, credo che Verasani poteva applicarsi un pochino di più, non raccontarci soltanto le giornate vuote di tre signore. Tutto il romanzo è sostanzialmente quello, per i lettori non sarà facile trovare qualcosa di diverso.
Douglas Coupland. Le ultime cinque ore ISBN Edizioni, 2012. 288 pag. 10 euro
Traduzione: Marco Pensante
Per come io percepisco la narrativa, Coupland è qualcosa di molto vicino ad un genio. E questo basterebbe a iniziare e chiudere qui questa specie di recensione, ma forse è il caso che cerchi argomentare un’affermazione così lapidaria e, soprattutto, visto che anche i geni non sono infallibili cerchi di fare meglio il punto su questo romanzo. Credo che dopo aver scritto quel capolavoro assoluto dal titolo “Il ladro di gomme”, rimettersi a scrivere e affrontare un nuovo romanzo non sia impresa psicologicamente facile. Questo, ma è probabile che la mia interpretazione sia troppo fantasiosa, ha spinto Coupland ad osare ancora di più, costringendo il proprio romanzo in un tempo narrativo di cinque ore, in una situazione spinta all’estremo limite e con i personaggi alle prese con una catastrofe dalle dimensioni planetarie e dagli esiti incertissimi. Questo equivale a far saltare tutte le regole, le convenzioni e i comportamenti abituali di ognuno di loro ed è esattamente questo ciò che mi viene da “rimproverare” a Coupland. In una simile situazione tutto è concesso e tutto è plausibile, qualsiasi bassezza e qualsiasi eroismo può entrare a farne parte integrante senza essere percepito essere sentito come fuori luogo dal lettore. Peccato che per certi romanzi esista già Stephen King e tutta una schiera di autorucoli che si aggrappano a storie più o meno verosimili per portare le situazioni ben oltre il consueto, il normale, e poter in questo modo giustificare le cose che scrivono con l’eccezionalità dei frangenti. Coupland ha talento da vendere e non dovrebbe aver necessità di questi trucchi da quattro soldi. La dimostrazione lampante che la “normalità” sia il suo regno è fornita proprio da “Il ladro di gomme”, in cui personaggi dall’esistenza banale, in situazioni lavorative ed esistenziali del tutto consuete, vengono esplorati e condotti con una maestria formidabile. Anche in questo romanzo l’autore scava nei personaggi e delinea relazioni ma essendo l’ambientazione (il bar di un aeroporto isolato da ogni altra cosa al mondo), la situazione (catastrofica) e il tempo a disposizione (in tutto cinque ore) ben diversi da una credibile routine, l’interesse che si prova per la vicenda e chi la abita è filtrato e decantato da queste forzature, direi quasi inquinato da tutto l’inusuale che gira attorno.
Detto questo, va ribadita la capacità di scrittura e la sottigliezza della psicologia che senz’altro sono ben presenti e per nulla scalfiti. Il guaio è che da un autore che si reputa un genio ci si attende sempre il massimo del godimento letterario e quando non riesce pienamente a darlo ci si rimane un po’ male. Almeno a me capita così..
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Jo Nesbo. Sangue e neve Einaudi,2015. 148 pag. 17 euro Traduzione: Eva Kampmann
Se Jo Nesbo fosse stato uno scrittore sconosciuto e questa la sua opera prima è molto probabile che gli editori a cui l’avesse proposta gliela avrebbero tirata dietro. E anche forte, con il non celato desiderio di fargli male. Pare che Nesbo non sia in grado o non voglia scrivere qualcosa che si discosti minimamente dal consueto laghetto in cui pesca. Anche se in questo romanzo lascia a casa il suo tormentato poliziotto preferito e il protagonista è una specie di sicario vagamente idiota, il passo narrativo è identico. La tensione è sempre un pelo sotto a quel che ci si aspetta da un romanzo di “genere” e le digressioni sentimentali sono sempre un pochino sopra le righe, vagamente lialesche. Oltre a questo, Nesbo sembra non avere molta considerazione per il propri lettori. Semina indizi molto evidenti sulla direzione che potrà prendere la vicenda e questo uccide l’interesse che già non è molto sollecitato dal ritmo e dalla tensione narrativa.
Certo, se dovete fare un viaggio in treno di tre-quattro ore e non volete perdervi in inutili chiacchiere con il vicino di posto e non volete smanettare compulsivamente nel vostro pc o smartphone, questo è un libro che può darvi un minimo di conforto. Fa anche sentire intelligenti per aver “sgamato” con largo anticipo dove l’autore vuole andare a parare, ma se si ha a disposizione un tempo più lungo, qualche pausa e il tempo di pensare a quello che si legge, probabilmente è meglio cambiare volume.
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Irvine Welsh. Godetevi la corsa Guanda, 2015. 448 pag. 18.50 euro
Traduzione: Massimo Bocchiola
Di Irvin Welsh è stato detto tutto e il contrario di tutto e, visto il suo modo di scrivere, la cosa non mi stupisce affatto. Di certo non si può dire che sia un eclettico.
Scrive più o meno sempre lo stesso romanzo, o meglio, scrive romanzi che si somigliano molto e sempre nello stesso modo. C’è chi sostiene che l’ecletticità di un artista sia un pregio e chi pensa sia un difetto, io non so decidere. Posso soltanto dire che produrre romanzi come quelli di Welsh può essere piuttosto comodo, gli ingredienti sono sempre gli stessi e miscelati con le stesse modalità: slang a tutto spiano e disagio psichico e sociale in vari toni e misure.
Mi farebbe molto piacere leggere un romanzo in cui Welsh riuscisse a lasciare da parte questi caratteri distintivi della sua narrativa e affrontare qualcosa di diverso, ma qui ricadiamo nel discorso di prima, quello dell’eclettismo e del non eclettismo, quindi ci troviamo in una strada senza uscita.
Per quanto riguarda questo specifico lavoro, credo che i personaggi siano troppo estremizzati, non so se per volontà di esagerare fine a sé stessa o per la necessità di spingere sull’estremo per farsi dare ascolto ancora una volta, questo potrebbe dircelo soltanto Welsh. Di sicuro c’è che non sono personaggi in cui un lettore “medio” può identificarsi. Ben difficilmente qualcuno può immaginarsi ad aver rapporti sessuali con la fidanzata quattro o cinque giorni dopo averla uccisa e dalla cui bocca escono mosche e alito allo zolfo (per non parlar del resto) e poi farsi sodomizzare dal padre della stessa, se per “espiare” il peccato o per altri motivi oscuri non è dato sapere.
Quanto appena scritto non ha la funzione di schifare il (mio) lettore, è soltanto un assaggio di quello che Welsh riesce a mettere sulla pagina: quando parlo di esagerare non vorrei che qualcuno mettesse in dubbio la cosa. Se i personaggi sono estremi la scrittura non è da meno. Gli “io” narranti sono tre, di cui due sono molto più presenti del terzo. I due di cui dicevo si esprimono in uno slang alla lunga decisamente faticoso da seguire e la lettura ne rimane condizionata negativamente. Non tanto per lo slang in sé stesso, ma per la pesantezza di dover leggere, oltre al dialogo, anche i pensieri scritti e descritti con le stesse modalità. A mettere a dura prova l’interesse del lettore, oltre a quanto già detto, va aggiunto che i due personaggi non sono dei grandissimi pensatori: uno è semplicemente un idiota e l’altro è un erotomane che non riesca a pensare ad altro che al sesso.
Il problema di questo romanzo è che se in altri lavori di Welsh era l’eroina a dettare i comportamenti dei protagonisti, qui non ci sono abusi di quel tipo, e allora tutto diventa meno credibile, forzato, ingiustificato. Ad esempio: il simpatico essere umano che abusa del cadavere della ragazza non è rappresentato come un pazzo furioso, un tossico o chissà cos’altro, per Welsh è solo una specie di stupidotto campagnolo con il quoziente intellettivo di un criceto, ma mi pare di poter dire che non sia sufficiente a motivarne il comportamento. Forse sbaglio, forse sono troppo borghese o troppo vecchio e/o coglione per capire queste cose ma penso ancora che all’interno di un romanzo debba esserci una coerenza e che se incoerenza ci dev’essere debba essere dettata dalla necessità di rompere gli schemi in modo intelligente e provocatorio, non “gratuitamente”, tanto per fare un po’ di casino. Tornando al discorso di prima, anche il terzo io narrante, uno straricco uomo d’affari e di spettacolo è estremizzato al punto da apparire il ridicolo, ma i brani che lo vedono narrare hanno il grandissimo pregio di essere scritti in una lingua comprensibile e piana, senza forzature e stridori grammaticali. A terminare il libro è un trucchetto che ha veramente del patetico, un giochino degno di un narratore di serie C e questo non fa che acuire il senso di fastidio che tutto il romanzo provoca, lasciando nella bocca del lettore un sapore molto amaro e molto rimpianto per aver letto oltre 400 pagine in cui non ha trovato molto senso.
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Emilia Garuti. Le anatre di Holden sanno dove andare Giunti, 2015. 144 pagine. 12 euro
Per quasi tutta la durata della lettura di questo breve romanzo, fino ad una ventina di pagine dalla fine, ho sperato che la conclusione non fosse quella che poi ho incontrato nelle sue pagine.
So che questa non è una nota critica e neppure una impressione di lettura, ma è stato senza dubbio il sentimento dominante delle ore che ho dedicato a questo testo.
L’autrice di questo romanzo è una ventenne che si muove con inusuale agilità in dialoghi precisissimi all’interno della delicata vicenda di una ragazza complicata e intelligente. Compone una storia che interroga e non è priva di sfumature, sa citare con arguzia ed essere ficcante, e mi auguravo per lei e per me che non terminasse il suo romanzo con una versione aggiornata del principe azzurro che arriva e risolve i problemi soltanto con la sua presenza. Certo, il ricorso al principe azzurro è parzialmente mascherato, ma la sostanza non cambia: dopo secoli e secoli si ricorre quasi inevitabilmente agli stessi stereotipi. E’ un peccato, un vero peccato, perché Garuti ha sicuramente talento narrativo e la sua scrittura non è mai banale.
Non so quanta responsabilità abbia l’autrice nella stesura del finale, molte case editrici sostengono e pubblicano romanzi soltanto se terminano con l’inevitabile lieto fine o qualcosa che gli somiglia molto: se a vent’anni una casa editrice importante come Giunti mi avesse fatto balenare la possibilità di una pubblicazione a patto di banalizzare un finale, sono certo che anch’io mi sarei prestato all’operazione. Naturalmente è solo una ipotesi, niente di più.
Posso e devo comunque consigliare di leggere questo romanzo con la considerazione che merita e dimenticare il finale che ha sicuramente molta importanza, ma non cancella i meriti precedentemente manifestati in maniera evidente, considerandolo un inciampo sul cammino di una maturità narrativa e compositiva che, visto l’esordio, non posso che immaginare ricca di buone prove.
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Andrea Scanzi. La vita è un ballo fuori tempo Rizzoli, 2015. 304 pag. 15.30 euro
Colmo di gratitudine per la persona che aveva fatto allontanare da uno studio televisivo una Alessandra Mussolini spietatamente a corto di argomenti, ho iniziato a leggere questo romanzo con parecchio entusiasmo. Purtroppo l’incisività del narratore non è neppure lontana parente dell’incisività del giornalista. La scrittura è contemporaneamente legnosa e sovrabbondante, il plot è così lontano dal plausibile che la sospensione dell’incredulità è un’operazione inimmaginabile e l’ostinazione con cui l’autore imbottisce di iperboli ogni pagina genera una sorta di mitridatizzazione che induce a trascurarle e ad avvertirle soltanto come una zavorra narrativa.
A volte si ha la sensazione che il romanzo sia il frutto e la somma di micro capitoli, molto spesso ripetitivi e in qualche maniera scollati tra loro. A unirli c’è soltanto la reiterazione continua delle coordinate emotive del protagonista, come se il lettore fosse così tonto e smemorato da non ricordare ciò che è scritto nelle pagine precedenti. I dialoghi sono molto pesanti, non hanno la fluidità necessaria ad essere goduti e, praticamente in ogni occasione in cui compaiono le virgolette, si può star certi che si scivolerà nell’aforistico, nello scolpito nella roccia.
Ma il guaio più grosso è che tutti parlano nello stesso modo, non esiste la minima caratterizzazione dei personaggi attraverso i loro dialogo. Fatta eccezione per poche figure secondarie, tutti si esprimono nella stessa identica maniera, come se avessero da dire le cose più importanti del mondo e, nel farlo, tendessero a sottolinearlo. Non c’è traccia di spontaneità, in filigrana si possono vedere, sentire e capire gli sforzi dell’autore per essere sempre originalissimo e, è evidente, l’autore ha parlato per tutti senza porsi il problema di dare una impronta diversa ad ogni personaggio.
Anche nelle descrizioni Scanzi è troppo presente, quasi assillante. Sembra si sia obbligato a inzeppare di iperboli, personaggi ipercaratterizzati, nomi e citazioni nelle intenzioni spiritosi, come se la buona riuscita del romanzo dipendesse non dalla qualità ma dalla quantità idee che riusciva a mettere su pagina.
E’ un peccato che una tale quantità di idee sia stata mortificata dalla scarsa attenzione con cui la si è sviluppata e da una scrittura rigida e malamente controllata, in netto contrasto sia con la vicenda che con le psicologie dei personaggi.
rubrica a cura di Daniele Borghi
Come sempre molto preciso e accurato nei commenti. Grazie infinite per la dritta sul romanzo della Garuti.
Mi ha fatto molto sorridere la tua recensione. Evidentemente Scanzi dovrebbe continuare a fare quello che sa fare e abdicare al ruolo di scrittore di romanzi. Pare che oggi in Italia tutti debbano cimentarsi in questo balletto editoriale. Scrivere non è facile, scrittori non si diventa. Si nasce masticando notte e giorno ottime letture condite con una passione infinita per la parola.
Pensavo di essere l’unica ” tranchant ” ma dopo aver letto questa recensione mi rendo conto che tu lo sei maggiormente e con migliori argomentazioni.
Grazie
🙂
Eletta
Mi piace la franchezza nell`esprimere il proprio pensiero in totale verità,senza inventarsi falsi elogi,espressioni di circostanza per elogiare opere che non soddisfano.Non ho stima di chi indora e fa uso di frasi di circostanza inappropriate.Chi recensisce un ‘opera letteraria deve possedere il dono della verità ed essere il più sincero possibile nel dire il suo pensiero,non si possono prendere in giro i lettori.BRAVO.